L’avventurosa filosofia di Stenio Solinas, giramondo per vocazione

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L’avventurosa filosofia di Stenio Solinas, giramondo per vocazione

23 Novembre 2008

Stenio Solinas avrebbe potuto fare il pittore. La sua penna verga le pagine come il pennello dell’artista attinge alla tavolozza per colmare di colori e immagini la tela. E immagini vivide, ricche e viventi sono quelle che formano il tessuto della sua ultima opera. Quella di una vita. Un libro che non è un romanzo, ma una galleria di ritratti, saggi, suggestioni, pensieri, cammei. Un libro che non è romanzo, ma un percorso intellettuale a tappe, coperte da chi si è sempre sentito fuori posto. “Vagamondo” per scelta, “altro” per natura. Rispetto al mondo, a questo mondo, e all’umanità.

E allora era naturale chiamare proprio con un neologismo, preso dal grande viaggiatore e diplomatico francese Paul Morand – il maestro Morand – la fatica più grande: "Vagamondo", appunto, edito dalla piccola ma battagliera Settecolori, che ne impreziosisce forma e contenuto e che si è specializzata nella pubblicazione di autori che con brutto linguaggio definiremmo fuori dal comune. Ecco Alain de Benoist e Maurizio Serra e Jean Cau. Fuori dal coro, il coro delle anime belle, quello da cui le voci stonate ma più avvolgenti sono escluse ipso facto. Sebbene prendano sempre la nota giusta.

Come Solinas, romano di nascita ma parigino d’elezione. Un sopravvissuto in un corpo estraneo e molle che ha fatto dell’omologazione culturale e della massificazione materiale i propri valori fondanti. Già esponente di quella corrente politica e intellettuale che si definisce “Nuova destra” e si raccoglieva intorno al filosofo francese de Benoist, Solinas è uno dei pochi grandi inviati rimasti, di quelli che la propria vocazione l’hanno vissuta e la vivono fino all’ultima goccia, prima responsabile delle pagine culturali e ora editorialista del Giornale.

E scrittore fine che, dal capolavoro "Compagni di solitudine" a "C’eravamo tanto a®mati", non ha mancato di andare controcorrente per aprire lo sguardo sui campi coltivati a destra quando dirsi di destra era non solo disdicevole. Ma quasi un reato. Così come non ha mancato di viaggiare, e di raccontarlo, morso da quella cuspide magica che è la curiosità, da quell’elemento misterico che è la solitudine, del viandante, del pellegrino. Non certo del turista. Di chi insomma parte per il gusto di partire, e ripercorre da passeggero del secolo – come ebbe a definirsi François Fejtö – il Novecento, quando ancora “viaggiare era un piacere”, non un dovere di competizione con il collega di ufficio.

Attraverso percorsi d’acqua e cavalcando l’onda del tempo (non a caso titoli di due sue splendide raccolte di racconti, reportage e intuizioni sul nostro tempo, le sue culture, le sue differenze), Solinas costruisce un “volume matrioska”, come dice lui stesso, in cui le quattro parti che lo compongo si incastrano l’una nell’altra, intrecciando luoghi, storie, incontri, scontri. Con l’ironia e il disincanto di chi ha visto il Novecento perdersi nella modernità.

Eccolo nell’estremo oriente cinese, Hong Kong, Shanghai, dove il consumo ha comprato l’anima di una cultura millenaria, nella decaduta città indiana di Alang, nel medioevo post-moderno dell’Afghanistan, in cui dominano barbe e kalashnikov, eccolo a Malta, Cipro e Gibilterra, “l’ultima isola, l’ultimo muro, l’ultima colonia”, eccolo a Kars, lì dove Europa e Asia si toccano e si studiano, e L’Avana. Ci conduce nell’Irlanda onirica di James Joyce e in quella perduta di Bobby Sands, a braccetto di Karen Blixen sulle praterie keniote, nel castello di Blenheim che fu di Winston Churchill, nella Predappio fra marmorei e italici mussoliniani.

Lì dove scompaiono luoghi e rievocazioni riappaiono frammenti e ricordi, sogni perduti di miti reali e immaginari: Brigitte Bardot, George Byron, Lord Brummel, Leni Riefenstahl, Greta Garbo, Pierre Drieu La Rochelle, Mario Sironi. Il diario di Solinas è un modo per spiegare il presente con gli occhi del passato e accorgersi di quanto sia vano sposare la vittoria. E’ un modo per rivedere il passato con gli occhi del presente e accorgersi che la sconfitta è solo questione di prospettiva.

Il lettore ondeggia incantato, come a bordo di una nave che bascula e che conosce la rotta per il porto, tuttavia. Un approdo, una scogliera di marmo, cui si giunge al termine di un’educazione sentimentale alla vita, che è avventura e bellezza. E le due cose insieme. La vita per cui il coraggio non è un’opzione, ma il solo tratto distintivo.