Le bimbe cinesi non hanno diritto alla vita

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Le bimbe cinesi non hanno diritto alla vita

09 Gennaio 2008

Il 28 dicembre, Natale era appena passato, una donna di 24 anni di
nazionalità cinese dava alla luce una bambina sanissima del peso di kg 3.470
presso l’Unità Operativa Ostetricia e Ginecologia dell’Ospedale di Prato.

Cinque ore dopo, la madre era morta. Apparentemente, soltanto un caso
statisticamente sfortunatissimo. Ci sono infatti soltanto tre possibilità su
100.000 che una partoriente muoia di Coagulazione Intravascolare Disseminata (CID), in parole povere, di un tipo di emorragia
dirompente che i medici non riescono ad arrestare.

Inoltre è ben nota l’entità
della comunità cinese di Prato, anche se la donna era ufficialmente residente a
Sarzana, in provincia di Spezia, città non molto distante dal centro toscano.
Tutto normale, dunque?

In realtà dietro la morte della povera madre cinese c’è la fuga da qualcosa
che non riusciamo a definire in altro modo che come genocidio.

Per capirci,
facciamo un salto indietro di una generazione. Nel 1979, per arrestare
l’esplosione demografica, il governo della Repubblica Popolare Cinese vara la
cosiddetta Politica del Figlio Unico. Una coppia che desideri concepire un
bambino deve preventivamente chiedere il permesso alle autorità. A ciascuna
coppia è consentito avere un figlio e uno soltanto. Se è tanto sfortuna da
mettere al mondo una bambina, una coppia può chiedere una deroga per provare ad
avere un altro figlio, sperando che la seconda volta si tratti di un maschio,
ma questa deroga è concessa soltanto se si tratta di una coppia di contadini.
Se invece nasce un bambino illegale, cioè senza permesso delle autorità, i
genitori devono pagare una pesantissima multa, che spesso li spinge a disfarsi
del secondo figlio vendendolo ai trafficanti di bambini.

Il nodo fondamentale di tutta la questione è il seguente: anche nella Cina
cosiddetta comunista i figli maschi sono fondamentali, perché rappresentano la
sola garanzia di assistenza per i genitori quando questi saranno anziani e non
più in grado di badare a se stessi. (Le figlie femmine si sposano e accudiscono
la famiglia del marito.) E poiché nessuno è ancora in grado di programmare il
sesso dei figli, ecco la soluzione del problema: basta uccidere le bambine
prima che nascano e rapire il figlio unico (maschio) degli altri.

Secondo un documentario messo in onda dal Channel 4 della BBC britannica (“Dispatches Special: China’s
Stolen Children”, 8 ottobre 2007), si calcola che dal 1979 siano state
uccise per aborto 40 milioni di bambine cinesi, vale a dire circa un milione e
mezzo all’anno. Contemporaneamente sono stati rapiti un numero imprecisato di
bambini maschi, portati via ai genitori dal cortile di casa, dal mercato, o
direttamente dal lettino. In Cina, l’uomo del sacco che ruba i bambini (che ne
impedisce le urla con un fazzoletto ben premuto nella bocca)  non è soltanto il cattivo delle favole, è una
realtà della vita di tutti i giorni. Sono 70.000 all’anno i bambini maschi che
vengono rapiti (vale a dire 190 al giorno) e che i trafficanti rivendono alle
famiglie senza maschio a un costo equivalente a sei mesi di salario di un
operaio specializzato.

In questo quadro a dir poco terrificante, la tragedia personale della mamma
di Prato assume un significato ben più ampio. La donna cinese era già stata
pesantemente multata per avere partorito un secondo figlio illegale. Per il
terzo aveva deciso di venire in Italia e far nascere la sua bambina facendosi
aiutare dai parenti e dagli amici della numerosa comunità cinese della Toscana.
Purtroppo quella bambina non conoscerà mai sua madre.

Un milione e mezzo di bambine abortite per il loro sesso rappresenta un
vero e proprio massacro. Centonovanta bambini rapiti al giorno, fa notare The
Economist
(21 settembre 2007), è più di quanti ne vengano rapiti in
Inghilterra e Galles in un anno intiero. Se si trattasse di un’epidemia (mucca
pazza, influenza dei polli, etc.), il mondo terrorizzato sarebbe già corso ai
ripari. E invece niente.

L’Organizzazione della Nazioni Unite fa finta di non
vedere. Il mondo occidentale, tutto preso com’è dai preparativi per le prossime
Olimpiadi di Pechino e dal cosiddetto miracolo economico cinese, quello che ha
semplicemente aggiunto ai misfatti del comunismo i lati peggiori del
capitalismo ottocentesco, non protesta. La sinistra benpensante, a suo tempo
abbacinata dal verbo maoista, preferisce prendersela con il papa, che in Africa
impedirebbe l’uso dei profilattici e predica l’uso dell’astinenza come unico
rimedio alle morti per AIDS, o bearsi per un’inutile dchiarazione contro la
pena di morte che non impegna nessun paese, tantomeno la Cina. Alle femministe
militanti i milioni di bambine selettivamente eliminate non interessano. Due
pesi e due misure, come al solito.

È riprovevole che al Dalai Lama, simbolo di un Tibet oppresso e represso, le
istituzioni italiane non abbiano concesso che un imbarazzato e rapido saluto in
sordina. È ancora più vergognoso che alle conseguenze nefaste della Politica del
Figlio Unico non si dedichi alcuna attenzione, come se la vita di un bambino o
di una bambina cinese, per il solo fatto di non appartenere al mondo
occidentale, non valgano eniente, e dunque la loro morte o la disperazione dei
genitori siano giustificate da chissà quali ingegnerie politiche “a fin di
bene”.