Le elezioni sono alla porte e i cittadini si chiedono per quale Europa votare
29 Maggio 2009
A meno di dieci giorni dall’apertura dei seggi per le elezioni europee (a Londra si voterà il 4 giugno) un solo tema sembra accomunare le 27 campagne elettorali nazionali: quanto ampio sarà l’astensionismo? L’ultimo rilevamento Eurobarometro ha fotografato una parziale inversione di tendenza rispetto ai dati degli ultimi mesi. Gli elettori certi di recarsi alle urne sarebbero il 43 per cento degli aventi diritto, ai quali si dovrebbe poi aggiungere un 6 per cento di quasi convinti. Molto rumore per nulla, si potrebbe concludere!
Pensando al costante calo della partecipazione dal 1979 ad oggi, anche un livello inferiore al 50 per cento è comunque considerato da euro-burocrati ed esperti di questioni comunitarie un successo. La costante spirale negativa, dal 63 per cento del 1979 al 43 per cento del 2004, verrebbe comunque spezzata, pur rimanendo nell’ambito di una tornata elettorale di “second’ordine”, utilizzata magari per mandare un messaggio intimidatorio alle forze di governo o esprimere un voto identitario a qualche partito estremo o euro-scettico.
Piuttosto che ragionare sulle cifre sarebbe forse più interessante e utile riflettere su questo scarso interesse che i cittadini mostrano per l’unica elezione diretta di un’Assemblea sovranazionale. O meglio, aggiungendo anche il triplo “no” referendario di Francia, Olanda e Irlanda, bisognerebbe forse spendere qualche parola complessiva sulla cronica difficoltà europea nel confrontarsi con gli strumenti di espressione democratica del consenso. Si è spesso parlato di deficit democratico dell’Unione, è giunto il momento di aggiungere che ogni volta che l’Europa chiama i suoi cittadini ad esprimersi direttamente i risultati oscillano tra il rigetto e l’indifferenza.
Se si osservano poi con attenzione i principali sondaggi e le inchieste proposte dai più autorevoli think tank si nota che ad un senso di sfiducia e disinteresse per il voto europeo si accompagna una contemporanea domanda, anche se confusa e disarticolata, di “più Europa”. Uno studio interessante della Fondation pour l’Innovation politique ci offre questa immagine paradossale: più di un europeo su due si dice disinteressato al voto per il Parlamento di Strasburgo ma contemporaneamente vorrebbe che il suo Paese procedesse maggiormente sulla via dell’integrazione. Forse si potrebbe concludere, in maniera un po’ provocatoria, non sono gli elettori ad essere disinteressati all’Europa, ma sono le europee a non essere elezioni interessanti.
Una possibile motivazione rispetto a questo difficile rapporto tra opinioni pubbliche nazionali ed istituzioni europee va forse individuato nella costante immagine di precarietà e indeterminatezza offerta dalla costruzione europea, perlomeno dal traguardo dell’euro in poi. L’Ue si trova ad un bivio e pare rinunciare costantemente al volontarismo e alla scelta. Innanzitutto si trova in bilico tra opzione intergovernativa (quella ben rappresentata dal semestre di presidenza francese) e via comunitaria (con rafforzamento del ruolo della Commissione e del Parlamento di Strasburgo).
In secondo luogo è sospesa tra l’ipotesi di una sua “politicizzazione” e quella di restare un consesso essenzialmente tecnocratico. Da questo punto di vista la campagna elettorale si sta rivelando emblematica di questa tendenza a non scegliere. In base al Trattato di Lisbona (al quale manca ancora il “sì” irlandese) il Presidente della Commissione è eletto dal Parlamento europeo su proposta del Consiglio. I due maggiori partiti presenti a Strasburgo, Popolari e Socialisti, avrebbero potuto “politicizzare” la campagna elettorale legandola a proposte concorrenti di candidati alla presidenza della Commissione. Al contrario hanno applicato alla lettera il Trattato di Nizza (in base al quale il Parlamento di Strasburgo si limita a ratificare la decisione del Consiglio europeo) fossilizzandosi attorno alla quasi certa riconferma della “non brillantissima” figura di Barroso, approccio consensuale che apre le porte all’accordo sulla presidenza del Parlamento (metà legislatura ai Popolari e metà ai Socialisti) e, forse addirittura a quella dell’eventuale Presidente fisso previsto dal Trattato di Lisbona. Difficilmente un’Europa senza politica potrà interessare i suoi cittadini.
Cosa dire poi dell’infinito percorso di rinnovamento delle istituzioni, dell’accordo solo apparente sulle ricette per uscire dalla crisi economico-finanziaria e dei silenzi imbarazzanti sulla gestione dei flussi migratori dal sud al nord del mondo?
In definitiva l’Europa odierna mostra tutta la sua preoccupante crisi identitaria (basti pensare alla questione Turchia) e l’altrettanto pericolosa assenza di un progetto mobilitante chiaro e univoco. Un approccio confuso accomuna i suoi principali leaders e il suo elettorato. Le campagne elettorali dei 27 sono tutte incentrate su questioni nazionali (se non addirittura locali). I cittadini, in larga maggioranza preoccupati per la disoccupazione e il crollo del loro potere di acquisto, non vanno in controtendenza rispetto alla schizofrenia dominante. Spesso chiedono “più Europa”, ma poi mettono all’ultimo posto delle priorità le spese per la creazione di una difesa comune europea o si dimenticano che avere “più Europa” significherebbe prima di tutto mettere mano all’esile bilancio dell’Ue.
La campagna elettorale per l’elezione dei parlamentari di Strasburgo sarebbe stata l’occasione propizia per affrontare, o almeno presentare, questa serie di questioni determinanti. Purtroppo invece l’8 giugno 2009 i cittadini europei (o perlomeno una parte di loro) avranno come al solito spedito a Strasburgo 736 deputati scarsamente rappresentativi (e quasi mai interessati a rispondere alla serie di interrogativi che ne mettono in discussione l’esistenza nelle sue stesse fondamenta ideali), ma comunque determinanti su circa l’80 per cento delle leggi che ogni anno vengono approvate nei parlamenti nazionali. Ancora una volta, insomma, un’occasione perduta.