Le femministe del “belcanto”
28 Luglio 2007
Un
saggio uscito a fine 2006 (Alessandra Nucci La donna a una dimensione ,
Marietti Genova 2006) ed una rassegna di letteratura sociologica (Guglielmo
Piombino Lo Jihad? Merito delle femministe nel settimane Il Domenicale in edicola dal 28 luglio)
fanno risalire al movimento femminista degli Anni Settanta un odio profondo
contro il maschio europeo che porterebbe, nelle sue versioni più radicali,
anche all’estremismo islamico ed alla “guerra santa” contro gli “infedeli”
occidentali.
Se
Alessandra Nucci e Guglielmo Piombino si recassero a Macerata (dove dal 26
luglio al 12 agosto) è in corso il 43simo Festival dell’Arena Sferisterio,
constarebbero che il femminismo, anche nelle sue forme più violente, già
dominava ai tempi del “belcanto”, in quella prima metà dell’Ottocento in cui,
anche nelle aree più sviluppate (e meglio governate) della Penisola alle donne
era affidato un ruolo casalingo, esaltato nella narrativa, ma smentito nella
forma di maggior successo di spettacolo, l’opera lirica. I teatri pullulavano
(le sole piccole Marche, parte dello Stato Pontificio, ne avevano 400), erano
privati e finanziati da consorzi di palchettisti e dal pubblico pagante e, con
il pretesto di essere distanti dalla realtà (si cantava invece di parlare, ci
si riferiva spesso a vicende situate in tempi lontani), mettevano in scena la
società , prendendo per il naso le censure (austriaca, borbonica, papalina e
via discorrendo).
Da
quando (nel 2006) il Festival è affidato
a Pierluigi Pizzi, i lavori presentati riguardano “il potere” (nel senso più
alto di potere politico ma anche in quello più immediato di potere sotto le
lenzuola). L’anno scorso si era alla prese con l’iniziazione al potere. Questa
estate, le opere, integrate da conferenze (Massimo Cacciari sul concetto di
potere, Anna Proclemer sulle donne e il potere), riguardano “il gioco dei
potenti”. Per il 2008 è annunciato un programma articolato sulla seduzione come
strumento per il potere.
Tranne
una prima mondiale di autore contemporaneo (“Saul” di Flavio Testi che riguarda
il potere in un contesto gay), le altre opere (“Macbeth” di Giuseppe Verdi,
“Norma” di Vincenzo Bellini e “Maria Stuarda” di Gaetano Donizetti)
appartengono alla prima metà dell’Ottocento, commissionate da teatri di Firenze
e di Milano dove imperavano ed imperversavano censure bigotte di una cultura in
cui il genere femminile aveva un ruolo secondario e subordinato. La prima è
anello di congiunzione verso quel melodramma italiano che dalla metà
dell’Ottocento alla fine del secolo, trattò apertamente di potere, specialmente
di potere politico, ma eliminò l’eros dal teatro in musica. Le altre due
appartengono al “belcanto” di inizio
secolo, in cui a volte anche i ruoli maschili venivano interpretati da voci
femminili; si era lontani dal ritorno in forza dell’eros e del potere femminile
in modo esplicito (nel teatro lirico italiano da collegarsi alla prima di
“Manon Lescaut” di Puccini; in quello di prosa, a livello mondiale, a “Casa di Bambola” di Ibsen) In tutte e tre le
opere, tuttavia, sono le donne a dominare il
gioco del potere in tutti i suoi aspetti non soltanto nei libretti ma
anche e soprattutto nella scrittura vocale e orchestrale. Le regie (Pizzi per
la prima e la terza , Massimo Gasparon per la seconda), le concertazioni
(Daniele Gallegari, Paolo Arrivabeni, Donato Renzetti) e la scelta degli
interpreti accentuano ancora di più il carattere femminista dei tre
allestimenti.
In
altre sedi, mi soffermo sugli aspetti tecnico-musicali degli allestimenti. In
questa , è importante sottolineare come rivisitare il femminismo del “belcanto”
abbia anche un significato storico-politico non secondario; in Italia, in
particolare, lo riallaccia, specialmente in “Macbeth (si pensi al coro “O
patria oppressa!” ) ed in “Norma” (un altro coro “Guerra!, Guerra!”) al
movimento di unità nazionale – da cui il femminismo del 1968-77 ed i suoi stanchi
epigoni vollero prendere tutte le distanze possibili.