Le grandi corporations vogliono l’aborto libero perchè hanno bisogno di schiavi del lavoro

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Le grandi corporations vogliono l’aborto libero perchè hanno bisogno di schiavi del lavoro

Le grandi corporations vogliono l’aborto libero perchè hanno bisogno di schiavi del lavoro

13 Giugno 2019

Il manifesto contro le leggi restrittive dell’aborto pubblicato il 10 giugno 2019 sul “New York Times” a firma di quasi 200 prestigiosi manager d’impresa statunitensi rappresenta con disarmante eloquenza l’autentica contrapposizione politica in atto oggi – ma in realtà da mezzo secolo – in Occidente su questo tema, e dimostra altrettanto eloquentemente perché l’aborto sia un argomento assolutamente centrale nel dibattito etico-politico delle democrazie liberali, così come nella definizione dell’idea di civiltà che ad esse sta dietro.

Cosa sostengono i firmatari dell’appello, principalmente amministratori delegati e dirigenti di molte tra le più grandi corporations operanti nel mercato della produzione di beni e servizi e nel mondo della comunicazione digitale (tra gli altri, i CEO di Twitter, H&M, The Body Shop)?

Sostengono che le restrizioni alla possibilità di abortire varate in questi mesi da alcuni Stati dell’Unione (tra cui l’Alabama, il Missouri, la Georgia, l’Arkansas, l’Indiana), e più in generale la crescente volontà di limitare il più possibile il ricorso all’interruzione di gravidanza negli Stati Uniti sarebbero un ostacolo all’uguaglianza sul lavoro (‘equality in the workplace’), e minaccerebbero “la salute, l’indipendenza e la stabilità economica” di dipendenti e utenti delle loro aziende.

Ma cosa significa questo in concreto? Sul punto, i manager firmatari sono piuttosto espliciti: “detto semplicemente”, essi argomentano, “questo è contrario ai nostri valori, e danneggia l’economia” (‘is bad for business’). Perché “rende più difficile la nostra possibilità di costruire organici rappresentativi delle minoranze e inclusivi (‘diverse and inclusive’), di reclutare i migliori talenti nei vari Stati, e di proteggere il benessere di tutte le persone”.

Dall’appello emerge, insomma, chiaramente il fatto che per i grandi manager l’aborto legale – la “reproductive care”, per citare l’ipocrita eufemismo usato nel mondo anglosassone per mascherare la crudezza dell’operazione di sopprimere un bambino nel grembo della madre – è da considerare un “valore”, qualcosa di eticamente positivo, in primo luogo perché se alle donne incinte non viene permesso di disfarsi eventualmente dei loro figli prima della nascita ci sarà meno forza lavoro disponibile sul mercato e meno assortita, e dunque le aziende avranno meno possibilità di scegliere personale di qualità.

Il manifesto dunque, al di là di alcune formule stereotipate del linguaggio “politicamente corretto” ancora adoperate, apre uno squarcio di impressionante verità sui veri motivi per cui il grande capitale è in larga parte schierato su posizioni “progressiste” e “femministe”, ed in particolare tiene tanto ai “diritti riproduttivi”. In sintesi, il fatto che le donne possano liberarsi senza troppi problemi della maternità – e, più in generale, il fatto che i lavoratori, donne e uomini, siano il meno possibile condizionati da legami e obblighi familiari – fa sì che il maggior numero di persone possibile sia disponibile a dedicare la propria esistenza pressoché unicamente al lavoro e alla carriera. E che, dunque, un numero di lavoratori quanto più alto possibile possa fruire del tempo e della libertà necessari per ascendere ai massimi livelli dell’organizzazione del lavoro, alimentando, per l’appunto, l’aristocrazia manageriale che domina il sistema economico occidentale contemporaneo (il “CEO capitalism”).

Portando il ragionamento fino alle sue estreme, logiche conseguenze, si può arrivare ad affermare che per il sistema delle grandi corporations americane ed occidentali l’ideale sarebbe una società senza madri, famiglie, senza matrimoni, e senza figli, composta da esseri “fluidi” e “liquidi”, malleabili e trasferibili praticamente all’infinito: “monaci” del lavoro, gran parte dei quali destinata a rimanere nei ranghi più bassi della gerarchia aziendale, ma di cui una minoranza particolarmente preparata e determinata potrà costituire la spina dorsale futura dell’élite economica, votata unicamente al sucesso personale e a quello dell’impresa. O quanto meno, il sistema di mercato globalizzato è compatibile al massimo con una società in cui i figli non siano più un evento naturalmente connesso ai legami sentimentali e alle strutture familiari, una “circostanza” della vita organicamente inscritta nel percorso delle vite individuali e delle relazioni, o addirittura un “caso”, un evento “non previsto”, ma possano essere soltanto il frutto di un “progetto” individuale, siano “costruiti in laboratorio” attraverso pratiche tecnoscientifiche come la fecondazione artificiale, il congelamento di embrioni, la maternità e/o paternità “surrogata” (l’utero in affitto o il seme in vendita).

Insomma, il “CEO capitalism” occidentale desidera che le società si dotino della libertà di manipolazione biopolitica funzionale a riarticolarsi secondo un dualismo tra una vera e propria “casta” di dirigenti totalmente padroni della propria vita e privi di obblighi esterni al loro percorso di formazione e professione – quasi una rinnovata aristocrazia dei “guardiani” come quella immaginata da Platone nella “Repubblica”, ma sul piano economico – e una classe subalterna di lavoratori strutturalmente precari, esentati dai legami familiari (grazie alla martellante propaganda del progressismo libertario edonista) per essere meglio assoggettati alle sempre mutevoli esigenze dei maercati e delle aziende globali.

Ecco perché il tema dell’aborto, lungi dall’essersi esaurito con l’avvento del progressismo biopolitico tardo-novecentesco – è destinato a divenire sempre più un terreno di scontro primario tra i progressisti globalisti e le élite sociali che li sostengono, da una parte, e i nuovi movimenti conservatori, tradizionalisti e sovranisti dall’altra.

Su di esso innanzitutto – sulla sua liberalizzazione o restrizione o proibizione, sul valore attribuito alla vita nascente, e in generale a quella estranea ad ogni criterio di “produttività” – si giocherà la battaglia tra un’idea di società imperniata su una libertà individuale soggettivistica priva di vincoli familiari e sociali (e corrispondentemente sullo strapotere indiscriminato delle élite economico-finanziarie sulle istituzioni democratiche) e una rinnovata tendenza a rafforzare le cellule comunitarie della società stessa, il senso identitario delle nazioni, delle culture e delle civiltà, la continuità tra le generazioni.