Le mani tese di Obama in Medio Oriente stanno creando il panico tra gli alleati

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Le mani tese di Obama in Medio Oriente stanno creando il panico tra gli alleati

21 Marzo 2009

L’amministrazione Obama si è offerta di dialogare con i nemici degli Stati Uniti in tutto il mondo e in particolare in Medio Oriente. Finora però l’offerta è stata raccolta da pochi.

L’Iran ha richiesto “sostanziali cambiamenti nella politica estera statunitense” come precondizione per il dialogo. La Siria vuole che l’America fermi l’indagine delle Nazioni Unite sull’omicidio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri e insiste sul ripristinare il proprio controllo sul Libano prima di “dialoghi sostanziali” con Washington. I talebani, dal canto loro, insistono sul “completo ritiro delle truppe straniere” dall’Afghanistan prima di prendere in considerazione il dialogo.

Bene, se i tuoi nemici non vogliono parlare con te, perché non provare a farlo con i tuoi amici? Questo però è precisamente quel che la nuova amministrazione non vuole fare perché potrebbe lasciar pensare che si stia proseguendo con le “politiche fallite” dell’amministrazione Bush.

In particolare, il presidente Obama non ha risposto ai messaggi d’auguri venuti dagli alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente se non settimane dopo il proprio ingresso alla Casa Bianca. La leadership irachena ha dovuto aspettare tre settimane. Il presidente afgano Hamid Karzai ha atteso quaranta giorni. I leader di paesi tradizionalmente alleati come il Marocco, l’Egitto, la Turchia, la Giordania e l’Arabia Saudita non hanno aspettato tanto a lungo ma non hanno ottenuto nulla più che qualche chiamata “di protocollo” priva di contenuto politico.

Gli emissari di Obama nella regione hanno messo bene in chiaro che la nuova amministrazione americana preferisce coltivarsi i nemici piuttosto che andare incontro ai propri amici.

Richard Holbrooke, l’inviato speciale in Afghanistan e Pakistan, ha parlato del proprio desiderio d’impegnarsi con i talebani ma ha menzionato “problemi di programmazione” per spiegare il fatto di non essersi incontrato con gli amici dell’America tra le élites afgane e pakistane. A Kabul ha messo quasi del tutto in chiaro che la nuova amministrazione vede la presidenza di Karzai come parte dell’“eredità di Bush”. Poi, i segnali che ha inviato in Pakistan fanno pensare che Washington non sia particolarmente incline ad appoggiare il governo del presidente Asif Ali Zardari.

Il segretario di Stato Hillary Clinton ha concesso al primo ministro libanese Fouad Siniora soltanto una stretta di mano da photo opportunity nel corso di una conferenza su Gaza tenutasi in Egitto. Siniora, il cui governo di coalizione dovrà affrontare un’elezione cruciale nel mese di giugno, aveva nutrito la speranza di una “convincente dimostrazione dell’appoggio americano”. Invece, è stato trattato con freddezza.

La preoccupazione che gli Stati Uniti stiano cominciando ad abbandonare i propri alleati ha portato una quantità di reazioni da panico. La scorsa settimana l’Arabia Saudita ha ospitato un summit a quattro nazioni di leader arabi che avevano guardato con favore al ritorno della Siria come attore di rilievo nelle politiche regionali. In cambio i siriani ottennero un “right of observation” in Libano, quel “diritto di osservazione” che useranno per influenzare il risultato dell’imminente appuntamento elettorale di quella nazione.

In Afghanistan gli oppositori di Karzai hanno dato il via a una campagna per impedirgli di correre per un nuovo mandato. Senza contare i circoli pro-Iran che insistono sul tema dell’Iran come “il difensore affidabile” del nuovo regime a Kabul in tempi in cui gli americani sembrano voler riportare al potere i talebani.

In Iraq l’inquietudine sul ritiro americano ha diviso i curdi, i più forti alleati di Washington in quella regione. Massoud Barzani sta cercando di creare un’alleanza con la Turchia per controbilanciare l’Iran nell’era post-americana. Jalal Talabani, l’altro leader curdo, sostiene che, una volta andati via gli americani, soltanto l’Iran potrà difendere il nuovo Iraq dai poteri arabi sunniti in cerca di vendetta. Anche il primo ministro Nouri al-Maliki, sempre sospettoso riguardo alle intenzioni di Teheran in Iraq, si sente in obbligo di raddolcire i mullah dando una fetta di potere al loro pupillo Muqtada al-Sadr.

In Pakistan gli oppositori di Zardari, convinti che gli Stati Uniti non lo appoggino più, hanno dato il via a una serie di proteste su scala nazionale. L’ex primo ministro Nawaz Sharif, sotto il cui governo i talebani conquistarono la maggior parte dell’Afghanistan, sta cercando d’inscenare un ritorno etichettando Zarfari come “un manichino americano insediato da Bush e abbandonato da Obama”.

Nel frattempo, la Turchia teme che Obama possa riuscire in un “grande affare” con i mullah riconoscendo l’Iran come potere principale nella regione. Cosa che lascerebbe la Turchia nei guai, incapace di entrare nell’Unione Europea e marginalizzata in Medio Oriente. Sono state quelle paure a suggerire al presidente turco Abdullah Gul di trovare una scusa per visitare Teheran, dove è stato il primo presidente turco in assoluto a incontrare la “Suprema Guida” iraniana Ali Khamenei.

Grazie alla percezione che gli Stati Uniti siano in ritirata mentre la Repubblica Islamica è in ascesa, Teheran nelle recenti settimane ha fatto da anfitrione a decine di presidenti e di primi ministri venuti dall’Asia Centrale, dal Caucaso e dal Medio Oriente. In ogni caso, l’idea è di mettersi d’accordo con gli iraniani prima che lo faccia Obama.

La nuova politica americana, o la mancanza di essa, potrebbe avere un impatto devastante sulle chance delle forze democratiche in tutta la regione mentre questa si trova di fronte a elezioni cruciali in Afghanistan, Iran, Iraq, Libano territori palestinesi, Egitto e Algeria. E i nemici degli Stati Uniti potrebbero arrivare a un notevole successo strategico prima che Obama abbia sviluppato una politica credibile per il Medio Oriente.

© New York Post
Traduzione Andrea Di Nino