Le misure anticrisi contengono molte novità ma non rilanciano l’economia
30 Giugno 2009
Il decreto estivo merita un bel 9 per le misure sociali, che sono dense di spirito innovativo e si accordano molto bene con la teoria dell’economia sociale di mercato, correttamente intesa. Invece merita solo un 6 + con riguardo alle politiche economiche di rilancio congiunturale.
Considerando altre misure di contorno, non molto corpose ma importanti come segnale, si può complessivamente affermare che si tratta di un decreto buono dal punto di vista delle politiche sociali e della amministrazione oculata della finanza pubblica, ma insufficiente per rilanciare l’economia italiana. E carente dal punto di vista di una strategia riformista.
Vanno anche aggiunte due considerazioni che possono mitigare questo giudizio non esaltante sulla manovra finanziaria di fine giugno. La prima riguarda la constatazione che la congiuntura economica italiana non merita la descrizione a tinte fosche che ne viene fatta da organi di previsione economica internazionale come l’Ocse e il Fondo Monetario Internazionale sulla base di dati Istat, che la stessa Banca di Italia, derogando alla sua tradizionale cautela, ha voluto avvalorare. Se fosse vero che il Pil italiano sta cadendo a un tasso del 5 per cento, non si spiegherebbe come mai le entrate tributarie invece sino ad ora si siano flettete solo del 2 per cento e come mai la disoccupazione, anche a dar credito alle indagini telefoniche e per intervista dell’Istat, sarebbe aumentata di un solo punto. Né si spiegherebbe come mai i treni e le autostrade sono così affollati ad ogni “ponte vacanziero” nazionale e locale. E come mai la Confcommercio non segnali un crollo della spesa per consumi. Neppure si spiega, sulla base di una simile riduzione presunta del Pil, come mai il tasso di inflazione in Italia deceleri meno che nella media degli altri paesi dell’area euro. E come mai le quotazioni del mercato immobiliare italiano non segnalino drammatici ribassi. Penso che le cifre catastrofiche messe in giro siano frutto di propaganda di organi suppostamene imparziali che hanno interesse a far circolare notizie negative sull’Italia.
In realtà la situazione è molto meno grave. E per conseguenza il governo non è sottoposto a drammatiche sollecitazioni da parte delle forze economiche e sociali e quindi non produce un decreto estivo marcato dal segno di una impellente emergenza. D’altra parte il governo non è neppure pressato da una opposizione di sinistra capace di produrre proposte di politiche anticongiunturali incisive.
A sinistra non si ode nulla di rilevante dal punto di vista delle politiche economiche di congiuntura e di struttura. Ci si contenta del gossip sulla vita privata del premier che per altro si sta ritorcendo negativamente sul Pd della Puglia. La mancanza di una vivace dialettica dell’opposizione fa si che il governo possa evitare di attuare incisive misure congiunturali e politiche di riforma senza danneggiarne la propria credibilità politica. In ogni caso, come ho detto, le misure riguardanti gli ammortizzatori sociali, contenute nel decreto di fine giugno costituiscono una confortante novità.
Le innovazioni positive sono due. La prima consiste nella possibilità che durante la concessione della cassa integrazione a favore della forza lavoro di un determinato stabilimento si possano attuare dei corsi di formazione per il personale cassa-integrato, con pagamento della retribuzione piena. Nelle proposte della sinistra riguardanti il nuovo contratto di lavoro unico i corsi di formazione sono previsti dopo il licenziamento per consentire al capitale umano dimesso di reinserirsi in altre imprese. Invece con lo schema adottato nel decreto di fine giugno il capitale umano, oggetto dei corsi di formazione, non viene licenziato. Rimane nell’impresa di cui fa parte e può essere reinserito nelle attività di questa. Oppure il lavoratore potrà decidere di sistemarsi altrove, senza però passare per un periodo di disoccupazione. La seconda innovazione, anche più ardita di questa , contenuta nel decreto di giugno, consiste nel consentire ai lavoratori che sono stati messi in cassa integrazione e iniziano una nuova attività di impresa o lavoro autonomo di usufruire, a titolo di bonus, di tutte le mensilità future di cassa integrazione a cui avrebbero avuto diritto se non si fossero licenziati dall’impresa. Credo che non ci sia bisogno di fare un lungo discorso per dimostrare che queste due misure sociali innovative corrispondono in pieno a una teoria della socialità conforme al mercato che collega l’equità all’efficienza.
Per le misure di carattere più strettamente economico il giudizio è meno lusinghiero. Esse consistono della riduzione a metà della tassazione del reddito di impresa per gli utili reinvestiti in macchinari e attrezzature e alla accelerazione del pagamento dei crediti che le imprese hanno verso la pubblica amministrazione. Ciò anche mediante il finanziamento da parte della Cassa Depositi e Prestiti dei governi locali che debbono effettuare quei pagamenti. Mentre questa seconda misura mira a riportare alla normalità i tempi di pagamento dei debiti da parte delle varie amministrazioni pubbliche centrali e periferiche, la prima misura comporta una deroga al regime tributario normale in cui ogni reddito guadagnato dalle imprese è tassato allo stesso modo, sia quando venga distribuito ai soci della società, sia quando venga mandato a riserva e impiegato per nuovi investimenti.
Secondo stime della Confindustria che ha chiesto al governo sia le norme dell’accelerazione dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni alle imprese che quelle di agevolazione fiscale per gli utili reinvestiti, i nuovi investimenti a cui si applicherà questo esonero tributario parziale ammontano a 20 miliardi di euro. Se l’imposta è il 30 per cento, la riduzione a metà è il 15 per cento. Che applicato a 20 miliardi comporta un risparmio fiscale di 3 miliardi, ripartito su due anni. Di per se 20 miliardi sono lo 1, 4 per cento del Pil. Ma è abbastanza evidente che una diminuzione del costo fiscale del 15 per cento non è grande stimolo economico. E non è dato, pertanto, di sapere quanta sia la quota di questi 20 miliardi di investimenti che le nostre imprese non avrebbero effettuato, in assenza di questo incentivo tributario. Potrebbe darsi che sia il 50 per cento ed allora lo stimolo servirebbe a dare un modesto impulso al Pil in quanto i nuovi investimenti sarebbero lo 0,7 per cento del Pil, ripartito su due anni. E forse l’investimento aggiuntivo è ancora minore.
Concludendo, questa misura non basta a rilanciare la nostra economia, anche se in ogni caso, consente alle imprese di risparmiare tre miliardi di euro.
Il decreto contiene anche nuove norme per il controllo della concessione delle pensioni di invalidità civile: una misura che va nella direzione della repressione degli abusi di cui è costellato il nostro sistema previdenziale. Un’altra norma provvede sanzioni penali per i paradisi fiscali e le evasioni tributarie internazionali e prelude, così, allo “scudo fiscale” che dovrebbe generare nuove entrate, mediante la possibilità di evitare tali sanzioni per chi fa rientrare i capitali imboscati illegalmente, pagando una sanzione pecuniaria, che dovrebbe oscillare fra il 4 e lo 8 per cento.
Non ci sono invece misure per il rilancio delle opere pubbliche e per lo sblocco dei fondi destinati alle politiche per il mezzogiorno, co finanziate dall’Unione europea. Questi fondi sono stati parzialmente utilizzati per la copertura delle spese per i nuovi ammortizzatori sociali e per quelle per la ricostruzione degli edifici distrutti o danneggiati dal terremoto dell’Aquila. Sarebbe ora che venissero finalmente impiegati per i loro obbiettivi istituzionali.
Il ritardo del Mezzogiorno e la sua carenza di infrastrutture costituiscono il maggior problema strutturale della nostra economia. Il PDL anche per ragioni di opportunità politica, dovrebbe dedicare maggiore attenzione a questo tema, anche se esso non è fra le priorità della Lega Nord.