Le primarie e l’incubo della società civile

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Le primarie e l’incubo della società civile

09 Ottobre 2007

Più che contro la segreteria di Veltroni, quelle di Letta e Bindi sembrano candidature contro il vicariato di Franceschini. Per non lasciare al vertice nazionale l’indicazione esclusiva dei segretari regionali e perché la società civile non soccombesse agli apparati di partito, hanno ripetuto più volte. Solo che a nessuno piace venir dipinto con i colori della partitocrazia. Sicchè ne è scaturita una gara a chi grida più forte “la società civile c’est moi!”. Il professor Gitti, il professor Andreatta, il cantautore De Gregori sarebbero “società civile”, mentre parlamentari e governanti esprimerebbero soltanto e comunque  “partitocrazia”.

Rispetto all’incoronazione di Prodi del 16 ottobre del 2005, la competizione del 14 ottobre 2007 aveva necessità di regole che non fossero esclusivamente privatistiche. Senza garanzie di diritto pubblico, le primarie sono ineluttabilmente acclamatorie. Lo si è visto subito. Quanto ha pesato, per esempio, il diritto della società civile e quanto quello della partitocrazia nell’escludere la candidatura di Pannella? E sull’elettorato attivo, sulla distribuzione territoriale dei seggi elettorali, su una “partecipazione” che non sia “iscrizione”, perché tante opacità?

Nella nostra storia politica, “partitocrazia” è termine coniato da Maranini e Pacciardi alla metà degli anni cinquanta. Ma già allora l’idea di guardare ai partiti politici come all’ineliminabile problema istituzionale di una democrazia moderna era più antica. Le sue radici non stavano affatto nelle tesi gramsciane sul Principe e la società civile o nelle suggestioni antiliberali del dossettismo. Ma affondavano nelle leghe di Salvemini ed Ostrogorski ed avrebbero poi ispirato la battaglia di Sturzo per uno statuto pubblico dei partiti.

Il nome di Moisei Ostrogorsky forse oggi non dice più nulla a chi tanto si accanisce su quello di Dario Franceschini. Eppure quell’esule russo agli inizi del novecento aveva girato, fra Inghilterra e Stati Uniti, una vita intera in cerca di dati, informazioni, critiche su quelle strane macchine, i partiti, che la democrazia aveva insediato nel modo anglosassone. A differenza di Michels o di Pareto, egli non era affatto rassegnato all’ineluttabile trionfo del “partito di massa”, magari ideato e praticato come “partito chiesa”. La strada di un associazionismo politico in grado di raccordare liberalismo e democrazia non gli pareva affatto impraticabile. Né l’oligarchia era per lui unica legge ferrea dei partiti.

Certe prassi e certe procedure di partitocrazia, prima che in casa nostra, si erano sviluppate proprio nelle democrazie liberali, dove però erano anche state limitate. Sicché l’anomalia italiana non è stata tanto la partitocrazia, quanto la riluttanza a promuovere i correttivi istituzionali alla partitocrazia. Ci si è affidati ad una sorta di modello “leninista”, che partiti tutt’altro che leninisti hanno pigramente imitato, spesso in nome della società civile.

Dalla società civile può provenire ancor più dispotismo che dal leninismo. L’Italia degli odierni “democratici” è passata magari attraverso il Pci, ma (sembrerebbe) nulla avendo compreso di quel mondo e di quella esperienza. In democrazia il gridare ad un magistrato “facci sognare” è colpevole, mentre il “facci sognare” detto per telefono ad un banchiere non lo è affatto. Tutto il resto è procedura.