Le proteste afghane spingano gli USA a ripensare il proprio ruolo nel mondo
01 Marzo 2012
Il caso dei libri del Corano bruciati in Afghanistan dai soldati americani e l’inevitabile scia di violenze successive, ripropone ancora una volta il tema di come leggere questi fatti quando una grande potenza imperiale – uso l’aggettivo in modo neutro e descrittivo – è impegnata in un territorio e con popoli “altri da sé”. E grosso modo le reazioni occidentali si possono suddividere in tre partiti. Innanzitutto, vi è il gruppo che attacca il comportamento dei soldati USA come manifestazione esemplare del disprezzo colonialista per cui quel gesto discende direttamente, conseguenza logica e pratica del suddetto imperialismo: qui siamo davanti al solito ritornello, al riflesso condizionato pavloviano. Dall’altra stanno i difensori dell’occidente, che ovviamente condannano il rogo, ma mettono in risalto la non specularità, per usare un eufemismo, di trattamento che i musulmani di quelle terre dedicano alla Bibbia, ai cristiani e agli ebrei, con l’aggiunta argomentazione che comunque nessun atto contro cose giustifica uccisioni di persone.
E la politica dove sta? Si ricava forse da questi ragionamenti una qualche indicazione d’azione, o per lo meno, visto che qui si scrive e basta e non si agisce, questi ragionamenti ci aiutano a capire? No, assolutamente no. E allora il discorso va spostato dal piano culturale e morale a quello propriamente politico, dove si possono fare alcune considerazioni.
La prima. Bisogna distinguere le reazioni violente della popolazione, le manifestazioni di piazza, dalla vere e proprie azioni armate contro gli occidentali e le forze di sicurezza afghane che dimostrano una capacità di fuoco e di penetrazione impressionante dopo ben 10 anni di presenza militare alleata. Quindi i talebani, non al confine con il Pakistan, nelle lontane province meridionali, ma a Kabul sono forti e Karzai controlla tra il poco e il nulla. Seconda considerazione. Con il rogo è stata offerta su un piatto d’argento l’occasione di dimostrare come i seguaci del mullah Omar siano gli interpreti reali dei sentimenti popolari. Passando ad analizzare il comportamento degli americani, si resta sbalorditi: hanno speso milioni di dollari e di tempo, perso purtroppo migliaia di giovani vite, per scrivere libri, saggi, articoli, fare conferenze, per capire quali fossero le migliori teorie di contro insorgenza, per capire che nelle guerre asimmetriche il centro di gravità è la popolazione locale che va compresa, messa in sicurezza, e poi si fanno fotografare (e diffondono su internet) mentre pisciano su dei cadaveri e, a complemento, bruciano il Corano, cioè distruggono completamente, riducono in cenere, scancellano dalla faccia della terra, le parole del Profeta? E’ come se un padre spendesse per l’educazione dei pargoli centinaia di migliaia di euro in educatrici svizzere, insegnanti di Galateo e buone maniere, e poi a Natale davanti a tutta la famiglia si cacciasse le dita nel naso, ruttasse, toccasse il sedere alla cameriera e completamente ubriaco cascasse dalla sedia bestemmiando.
Forse qualcuno può pensare che la metafora sia eccessiva e paradossale, ma non tanto e comunque ci serve a introdurre l’ultimo ragionamento per cercare di decifrare l’attuale imperialismo americano. Gli Stati Uniti, a differenza dei loro cugini inglesi e delle potenze europee, hanno sempre esercitato la loro potenza e gestito l’ordine mondiale attraverso un’enorme forza economica, tecnica e culturale che dopo la seconda guerra mondiale si è anche tradotta sul piano militare e di proiezione a causa della guerra fredda. Dopo il crollo del muro, e a seguito della terribile esperienza del Vietnam, ogni politica di intervento, di regime change, è stata però esclusa. E’ così che è nata la dottrina Weinberger-Powell sull’uso della forza, il sogno delle RMA fino alla dottrina Rumsfeld; ecco allora i bombardamenti aerei su Belgrado e il non intervento nelle guerre e nei genocidi africani. Ma questo doppio binario economico e militare di gestione dell’ordine mondiale non è capace di governare le sfide attuali che vengono dalla globalizzazione, per cui l’azione americana risulta sconnessa e frammentaria.
Sul piano militare, irrompe l’11 settembre con l’attacco al territorio americano che costringe Washington a cambiare improvvisamente politica verso il Medio Oriente, atto che richiede anche cambiamenti sul piano strategico e militare. Gli USA adesso non sono più favorevoli a mantenere lo status quo, a governare l’ordine esistente, diventano una potenza revisionista che vuole cambiare la realtà e la formula viene trovata nell’”esportazione della democrazia”, d’altra parte uno stato democratico – anzi “lo” stato democratico per eccellenza con una missione universale da svolgere – quale altra legittimazione poteva trovare? Ma in quei paesi della democrazia gliene importa poco, mancano i presupposti, manca la società civile, mancano forze democratiche, e al contempo gli Stati Uniti non hanno né il tempo, né i soldi, né la volontà, né economicamente conviene rimanere impelagati laggiù tra le montagne dell’Afghanistan. E ritorna l’incubo del Vietnam: guerra ad oltranza o abbandono? Sostegno al regime corrotto di Saigon o trattativa? Il risultato è che il mix tra potenza, idealismo invece di creare ordine produce una fluidità che stenta a trovare una sua forma, come dimostra anche il caos delle rivolte nei paesi arabi del Mediterraneo.
Adesso inoltre, a differenza degli anni settanta, prima e dopo il Vietnam, non c’è la cornice della guerra fredda a tenere assieme il mondo; adesso le cose sono in movimento, smottamenti geo-politici si intrecciano a crisi economiche internazionali; adesso la legittimità all’uso della forza e al predominio non discendono né sono garantiti dal riconoscimento della loro necessità per difendersi dal nemico esterno. Potenza delle armi, potenza dell’economia, potenza della democrazia, forza dell’ american way of life se vogliono continuare a governare devono dimostrare di essere all’altezza dei tempi, di saperlo fare, di offrire una nuova dottrina che regga le sfide della globalizzazione, che produca delle istituzioni e delle politiche universali. “Imperare” vuol dire governare. Altrimenti saremo condannati a coabitare a lungo in una situazione di disordine dove solo i più forti avranno qualcosa da guadagnare. E imperare sarà sinonimo solo di comando.