Le resistenze alla spending review dimostrano gli scarsi poteri del premier

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Le resistenze alla spending review dimostrano gli scarsi poteri del premier

25 Aprile 2012

Le forti opposizioni emerse tra i ministri del governo Monti in merito alla cosiddetta spending review – ossia alle ipotesi di una riduzione ragionata e strutturale della spesa pubblica – stanno evidenziando in maniera imbarazzante, se non addirittura grottesca, i limiti strutturali di un esecutivo "tecnico" che ci era stato presentato dalla grancassa mediatico-politica come il massimo dell’efficienza decisionale, contrapposta all’incapacità della classe politica partitica che lo aveva preceduto.

In effetti appare quasi comico il fatto che un premier dotato dell’appoggio incondizionato del Quirinale e di una maggioranza parlamentare tanto schiacciante quanto obbligata, dipinto come l’unico possibile leader in grado di imporre le scelte dolorose e strutturali che la crisi del debito impone al paese, non sia in grado di venire a capo di resistenze e lamentele da parte di ministri senza base politica (oscuri funzionari, generali, ambasciatori, avvocati), contro qualsiasi ipotesi di tagli ai bilanci dei loro dicasteri.

Ma proprio questa, a quanto pare, è la triste realtà. La politica del mero inseguimento del pareggio di bilancio ottenuto spremendo tutte le possibili leve del prelievo fiscale si sta dimostrando del tutto inefficace a superare il rischio default, ed anzi controproducente perché genera recessione e diminuisce gli introiti fiscali, perpetuando il deficit (e riproducendo la diabolica dinamica dell’innalzamento dello spread). Con ogni evidenza non esiste alcuna possibilità per il paese di superare la crisi del debito pubblico e di recuperare credibilità rispetto ai mercati e agli investitori globali se non si aggredisce decisamente il ciclopico ammontare della spesa pubblica, pari a circa 800 miliardi di euro, oltre il 50% del Pil, ed in gran parte concentrata in spese correnti improduttive. Eppure, nonostante l’emergenza cruciale per il futuro del paese e le sue possibilità di sviluppo, qualsiasi ministro/carneade, privo di base politica e consenso elettorale, può ancora efficacemente mostrare ‘irritazione’ e promettere insubordinazione di fronte alla più timida intenzione di ridurre il budget del suo ministero. Ciò dimostra inequivocabilmente due cose.

La prima è che non è vero che i passati governi di coalizione fossero incapaci di compiere scelte impopolari ed incisive sulla finanza pubblica a causa della litigiosità tra i partiti e dei poteri di veto di questo o quel settore politico. Certamente le divisioni interne alle maggioranze, o i legami tra segmenti di esse e gruppi sociali potenzialmente danneggiati influivano negativamente in tal senso: ma le spinte corporative, a quanto pare, sono in grado farsi sentire altrettanto, se non addirittura maggiormente, attraverso ministri "tecnici", provenienti dalla stessa burocrazia ministeriale o caratterizzati da una lunga confidenza con essa.

La seconda, ancora più importante, è che qualsiasi presidente del Consiglio – per quanto possa essere fornito di autorità internazionale, copertura istituzionale, consenso da parte dell’opinione pubblica, e per quanto possa essere favorito dalla debolezza dei partiti che lo appoggiano – nell’assetto politico – costituzionale italiano non è mai in grado di imporre efficacemente la propria autorità sui ministri della propria compagine.

Insomma, nonostante il processo di personalizzazione della dialettica politica intorno alla figura del premier – iniziato con il bipolarismo della ‘seconda Repubblica’, e del quale il governo tecnico di Monti rappresenta forse la punta più estrema – il ruolo del premier nel nostro ordinamento rimane quello pallido tracciato dalla Costituzione del 1948: un primus inter pares, un leader ‘debole’, continuamente costretto a contrattare ogni misura innanzitutto con i componenti del proprio esecutivo, oltre che con il parlamento e con il capo dello Stato. Un ‘re travicello’, a dispetto di ogni sua aspirazione demiurgica. Ruolo che, peraltro, segnava una complessiva continuità rispetto agli equilibri costituzionali di epoca liberale prefascista, in cui il presidente del Consiglio tradizionalmente doveva guadagnarsi faticosamente il suo spazio d’azione maneggiando magmatiche maggioranze trasformiste alle Camere, e contemporaneamente sgomitare per difendersi dalle ingerenze della Corona.

Tutto ciò ci riconduce ancora una volta a quello che Piero Calamandrei, in Assemblea costituente, definì "il problema centrale della democrazia", e cioè l’adeguata organizzazione della funzione di governo. Il quasi ventennio di bipolarismo iperpersonalizzato succeduto nel nostro paese all’assemblearismo partitocratico ha indotto per qualche tempo l’illusione che l’annoso problema della debolezza dell’esecutivo fosse stato superato. Ma proprio la radicalizzazione dello scontro e le reciproche, insuperabili delegittimazioni tra gli schieramenti hanno sempre impedito di ridisegnare il sistema politico-costituzionale secondo il modello occidentale della ‘democrazia governante’. E il collasso delle ‘macchine’ partitiche ha lasciato in piedi, in luogo della vecchia partitocrazia, un consociativismo fondato su corporazioni e burocrazie.

Ora, il cruciale caso della spending review ci ricorda brutalmente che senza una riforma della Costituzione in senso presidenzialista o in quello di un "governo del premier", senza che siano forniti adeguati strumenti costituzionali all’azione del capo del governo, nessuna scelta realmente incisiva per salvare economia e finanza pubblica dalla bancarotta potrà mai essere attuata.

Proprio per questo, la rete delle corporazioni che avvolge anche il governo "tecnico", insieme a ciò che resta delle moribonde burocrazie partitiche e sindacali, cercherà di impedire con ogni mezzo che si compia quel processo, per rimanere disperatamente aggrappata al sistema di (non) governo imperniato sulla contrattazione infinita, anche se ciò dovesse significare ormai rimanere aggrappati alla carcassa di una nave che irrimediabilmente affonda.

E’ facile prevedere, purtroppo, che soltanto un”Algeria’ economica, ed un conseguente collasso del sistema politico democratico dopo il fallimento dell’ultima carta dei ‘tecnici, imporranno alla classe politica italiana la necessità di scelte riformatrici profonde, che chiudano definitivamente il conto con l’eredità storica del consociativismo. Ma a quel punto il modello della ‘democrazia governante’ rischierà di trovarsi di fronte nuove, più seducenti alternative populiste-autoritarie, maturate con il gonfiarsi a dismisura delle pulsioni antipolitiche nel progressivo incancrenimento del sistema.