Le riforme costituzionali non sono mai state così a portata di mano
29 Aprile 2013
Con la nascita del governo Letta in molti hanno ipotizzato che possa finalmente trovare attuazione l’eterno progetto mancato della seconda repubblica: una riforma costituzionale che intervenga sui primi tre titoli della seconda parte. In verità, il percorso che negli anni è stato tracciato, è costellato di fallimenti e piccole riformicchie che non solo non hanno inciso, ma hanno addirittura peggiorato, l’ordinamento costituzionale. Si pensi, per esempio, alla scellerata riforma del titolo quinto sull’ordinamento regionale la quale, con l’attribuzione di ampi poteri nel settore sanitario e infrastrutturale, ha solamente aumentato in modo esponenziale la spesa di questi enti, senza che i risultati concreti fossero veramente positivi. Anzi, un ente, quello regionale, che una decina di anni fa era visto dall’opinione pubblica come un modello virtuoso di istituzione, è presto finito come il simbolo del malaffare. Questo ci insegna come le riforme a macchia di leopardo, asettiche e a compartimenti stagni, come quella del 2001, siano destinate presto o tardi a fallire. Ecco che, se riforma deve essere, non può riguardare un singolo titolo ma la parte seconda nella sua totalità.
La commissione dei “saggi” recentemente insediata per volontà del presidente Napolitano ha senz’altro tracciato un disegno più o meno chiaro di quello che dovrebbe essere il futuro assetto istituzionale: una camera legislativa e una camera delle regioni. Uno scenario auspicabile ma, secondo noi, insufficiente. Non è possibile, infatti, ripetere l’errore del passato, mantenendo intatto il rapporto esecutivo-legislativo con un semplice riassetto del secondo. Senza intervenire decisamente sul potere esecutivo nessuna riforma è possibile, specie senza una adeguata legge elettorale che non può più essere avulsa al sistema di governo, come è stata in tutta la storia repubblicana. Si pensi che abbiamo cambiato quattro volte la legge elettorale senza mai aver mutato l’assetto del potere esecutivo. Un errore le cui conseguenze in termini di instabilità sono evidentissime.
Gli scenari del presidenzialismo sono numerosi: c’è chi propende per un sistema alla francese, con un presidente della Repubblica eletto direttamente dai cittadini che è anche, di fatto, capo del governo, lasciando al suo primo ministro funzioni di semplice raccordo e rappresentanza interna. Francamente, non un sistema congeniale per un Paese eternamente diviso come il nostro dove, non infrequenti, sarebbero gli scontri tra personaggi dello stesso partito, figuriamoci in caso di coabitazione. Quanto al presidenzialismo americano, bisognerebbe addirittura unificare nella stessa persona due ruoli che la Costituzione ha voluto piuttosto dividere. Scenario decisamente improbabile, se non impossibile dal punto di vista della legittimità costituzionale.
Più che di “presidenzialismo”, una riforma praticabile e non problematica dal punto di vista del raccordo tra le vecchie e nuove disposizioni costituzionali sarebbe quella del “premierato”. Ad oggi, ricordiamolo, né il Presidente del Consiglio né il Presidente della Repubblica vengono eletti direttamente dal popolo. Se almeno uno fra questi, e nel caso di specie il capo del governo, lo fosse, si manterrebbe un ruolo di garanzia per il Capo dello Stato, magari senza il potere di scioglimento delle Camere, permettendo al primo ministro non solo di avere, finalmente, la legittimazione popolare che oggi ha solo in via indiretta, ma anche il potere di scegliere e revocare i ministri, potere che, oggi, neanche il Capo dello Stato ha. Affiancando così una figura eletta direttamente dai cittadini ad una nominata da un Parlamento che sia veramente rappresentativo, il sistema, senza essere stravolto, può senza dubbio essere riformato in modo equilibrato.
Per permettere però questa seconda condizione va, una volta per tutte, approvata una legge elettorale avulsa dallo status quo. Non possiamo più permetterci di stilare una legge elettorale sondaggi alla mano, inserendo o cancellando una riga in base ai collegi sicuri o in bilico. Se proprio, e sarebbe davvero triste, non si fosse in grado di farlo, saremmo costretti ad una legge la cui vigenza sarà “postdatata”, così da scongiurare la tentazione di aggiustamenti dettati dalla contingenza elettorale. Uno spettacolo triste.
L’occasione ora c’è, e non è mai stata così a portata di mano. I due schieramenti maggiori sono ora al governo insieme ed un compromesso, anche sulle attività parlamentari (vero fulcro delle riforme, non lo si dimentichi) è certamente possibile. Se il governo saprà dare una dimostrazione di coesione, più o meno forzata, questo effetto si rispecchierà anche nel più diviso e farraginoso Parlamento. Altrimenti il baratro è a vista perché una nuova legislatura, da costruire su queste basi, non possiamo più permettercela.