Le riforme possibili e il costo di uno Stato che non c’è

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Le riforme possibili e il costo di uno Stato che non c’è

Le riforme possibili e il costo di uno Stato che non c’è

01 Ottobre 2020

Parafrasando ciò che Churchill diceva della democrazia, lo Stato è la peggior forma di organizzazione delle comunità su un territorio eccezion fatta per tutte le altre sperimentate finora. E il buon funzionamento di uno Stato è direttamente proporzionale alla qualità delle sue istituzioni.

Le istituzioni hanno una duplice valenza. Hanno una importanza tecnica, perché dalla loro capacità di assumere decisioni efficaci e tempestive discende in gran parte l’efficienza del sistema statuale. E hanno un’importanza morale, decisiva per la coesione della comunità nazionale che in esse si riconosce: più le istituzioni sono avvertite come legittime, più una comunità saprà stringersi intorno ad esse nei momenti di difficoltà. Non casualmente Vittorio De Caprariis sosteneva che le istituzioni “sono anche passioni”.

La crisi legata all’emergenza coronavirus – una crisi sanitaria, ma anche socio-economica e istituzionale – ha evidenziato il costo incalcolabile delle mancate riforme. In Italia per decenni ci si è posti il problema di come sottoporre a revisione una Carta varata a metà del secolo scorso, in un contesto storico completamente differente. Ma i tentativi di farle il tagliando sono tutti abortiti, per le ragioni più disparate, senza che ne sia seguita la consapevolezza che di questa incapacità delle istituzioni a riformare se stesse avrebbe fatto le spese l’Italia alla prima seria difficoltà.

Sul fronte dell’efficacia e dell’efficienza va considerata innanzi tutto l’assenza, nella nostra Costituzione, di una norma finalizzata a disciplinare lo stato di emergenza. Possono esserci – e lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle – situazioni straordinarie che richiedano decisioni straordinarie e tempestive. Da questo punto di vista il carattere pandemico del Covid ci ha consentito di mettere a confronto la reazione di Paesi nei quali questa previsione esiste (tra gli altri la tanto e ingiustamente vituperata Ungheria), che hanno potuto far conto su prerogative eccezionali costituzionalmente disciplinate con tutti i contrappesi del caso, e Paesi nei quali le procedure decisionali codificate contemplano quasi esclusivamente l’ordinarietà.

L’Italia, in realtà, almeno di uno strumento per far fronte alle situazioni di necessità e urgenza, senza escludere dal circuito decisionale le istituzioni rappresentative, è dotata. Si tratta del decreto legge, oggetto da molti anni di un costante utilizzo abusivo quale rimedio improprio all’inefficacia complessiva del sistema. Si è scelta, invece, la strada dello stravolgimento delle fonti, con gli ormai famigerati dpcm – atti amministrativi di normazione secondaria – utilizzati persino per comprimere libertà costituzionali e le Faq pubblicate sul sito internet del governo che, nella comunicazione ufficiale dell’esecutivo, sono assurte al rango di fonti normative.

Né ha dato migliore prova di sé la nostra forma di Stato. Il Covid è stato il primo vero stress test della riforma del Titolo V del 2001, e si può ben dire che l’esito è stato fallimentare. Il rapporto tra Stato e Regioni ha avuto un andamento del tutto empirico e improvvisato. La precaria architettura ordinamentale ha lasciato spazio a geometrie variabili a seconda della compatibilità politica del governo nazionale con i governi regionali. E in questo quadro la zona grigia delle materie concorrenti, anziché strumento di flessibilità, si è rivelata un alibi per l’assunzione di decisioni secondo convenienza. Va detto che di fronte all’impasse del governo, incapace al momento opportuno di pianificare per tempo una riapertura efficace e ordinata, l’iniziativa delle Regioni che si sono imposte sulla paralisi del sistema nervoso centrale ha avuto l’effetto positivo di avviare lo sblocco del Paese. Ma si è trattato di un’anomalia necessaria, non di una straordinarietà regolata. Le Regioni, in ogni caso, più stabili per via dell’elezione diretta dei presidenti, hanno dato una prova migliore e hanno anche saputo interpretare più adeguatamente l’interesse generale, oltre le loro differenze di parte.

Non è andata meglio sul fronte della legittimazione morale delle istituzioni rappresentative. Certo, in situazioni emergenziali il ridimensionamento del Parlamento è fisiologico: laddove è richiesta tempestività di azione il peso delle assemblee si riduce nella fase decisionale e si amplifica nella funzione di controllo. In Italia, invece, abbiamo assistito a uno svilimento complessivo, che non ha avuto eguali in nessun altro Paese occidentale.

Da noi il Parlamento ha perso la sua funzione rappresentativa, e l’emergenza dei mesi scorsi – soprattutto nella fase del lockdown e in quella immediatamente successiva – lo ha dimostrato. La tendenza narcisistica dell’autorità di governo ad accentrare su di sé non soltanto le prerogative decisionali ma anche la “rappresentazione” istituzionale al cospetto del Paese non ha trovato nella consapevolezza delle assemblee elettive alcun argine neppure simbolico. Né c’è stato ruolo di controllo. Sia a causa dello strumento adottato per l’assunzione delle scelte – il dpcm -; sia per l’auto-limitazione che i gruppi si sono imposti nella conversione in legge di decreti che avrebbero meritato ben altra attività emendativa.

L’insostenibile leggerezza della politica ha chiuso ogni spazio alla manovra parlamentare, intesa non come operazione sotterranea di trasformismo (la spasmodica ricerca di “responsabili”), ma come immaginazione di soluzioni non scontate a problemi specifici e inediti al di là degli schemi precostituiti. Si è smarrita, di conseguenza, la tradizione dell’eloquenza a lungo praticata sugli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama: deputati, senatori e leader politici, garantendosi una diretta tv, si sono preoccupati quasi esclusivamente di parlare al Paese e non di essere ascoltati nell’emiciclo.

E’ altamente emblematico, d’altro canto, che nel periodo più difficile della storia della Repubblica i momenti significativi nei quali il Parlamento ha dato prova della sua esistenza in vita non siano stati legati alla discussione sul futuro del Paese ma, tanto per fare qualche esempio, ad amenità varie ed eventuali come la mozione di sfiducia al ministro Bonafede (un pessimo ministro messo politicamente sotto accusa nell’unica occasione in cui non lo si sarebbe dovuto fare: di fronte agli attacchi di un pm non nominato in un ruolo di designazione governativa); l’inginocchiamento di Laura Boldrini nell’aula di Montecitorio in ossequio a una delle più recenti mode del politicamente corretto; la “deposizione” di Vittorio Sgarbi dagli scranni. Insomma, da fulcro della vita democratica il Parlamento si è andato trasformando in palcoscenico per azioni temerarie o clamorose. Sulla sua autorevolezza, di conseguenza, questi mesi d’emergenza sembrano aver fatto calare il sipario.

E’ una deriva senza ritorno? In passato il parlamentarismo ha saputo smentire atti di morte ben più circostanziati. Servirebbe però un sussulto di consapevolezza, che non può essere né la pialla roussoviana né la retorica del conservatorismo istituzionale.

Ciò di cui c’è bisogno è una riflessione sullo spazio e sul ruolo possibile per le istituzioni rappresentative di fronte alle dinamiche della modernità. E l’occasione ci viene oggi servita su un piatto d’argento. Chiedere un referendum dall’esito scontato sulla riduzione del numero dei parlamentari, dopo che la riforma era stata approvata dalle Camere quasi all’unanimità, è stata probabilmente una sciocchezza: un regalo gratuito alle pulsioni dell’antipolitica che ha finito per oscurare del tutto le ragioni riformiste di quanti il taglio lo avevano votato (nel mio caso addirittura proposto) per rilanciare e non certo per smantellare le istituzioni rappresentative.

Ora che comunque la consultazione popolare è stata celebrata, e il taglio è divenuto definitivo, sarebbe il caso di smetterla di discutere sul numero di caffè pro capite risparmiati o meno e di immaginare questo primo passo come un innesco di riforme possibili. Con una necessaria premessa metodologica: come l’esperienza pluridecennale ci ha insegnato, l’articolo 138 della Carta, che regola il procedimento di revisione costituzionale, non si presta a grandi riforme organiche. Non a caso, diversi dei tentativi in questo senso sono stati compiuti tentando la strada di commissioni bicamerali o di deroghe (in senso garantista) al 138.

E’ evidente che ora resta soltanto la via ordinaria. In ogni caso, il taglio operato impone dei correttivi e consente degli interventi, sia regolamentari che costituzionali, per ripensare il ruolo e il funzionamento di un Parlamento più agile, in grado per questo di decidere in tempi più brevi e di controllare più agevolmente l’azione dell’esecutivo. Un bicameralismo più razionale è la bandiera dei riformisti da sempre. Ora che la strada è tracciata, ammainarla sarebbe un delitto.

da Il Riformista Economia