Le sfide della bioetica nell’epoca del multiculturalismo

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Le sfide della bioetica nell’epoca del multiculturalismo

Le sfide della bioetica nell’epoca del multiculturalismo

28 Settembre 2007

Si parlerà di identità e
cultura, bioetica e politica, occidente e multiculturalismo nel corso di un convegno
dal titolo “Politica e questioni bioetiche, oggi” organizzato dal Circoli del buon governo di Castel San Pietro Terme, in
programma domani presso il centro congressi dell’Albergo delle
Terme. Vi proponiamo le
linee guida dell’intervento che il professor Sergio Belardinelli terrà sul tema “Multiculturalismo e bioetica”.

Le dinamiche socio-culturali seguono
una logica solo in apparenza paradossale. Può accadere così che la crescita in
termini di libertà individuale si accompagni con la crescita di colossali
pericoli per la libertà, che l’emancipazione individuale faccia crescere il
bisogno di legami sociali, che il relativismo e il multiculturalismo, divenuti
ideologia dominante, finiscano per ridare vigore alla tematica
dell’universalità e alla ricerca di ciò che è comune in tutte le culture;
precisamente, credo, quanto sta accadendo nella nostra epoca. E direi che
proprio sul fronte della bioetica siamo in grado di misurarne al meglio il
senso più profondo, data la particolare natura delle sfide con le quali su
questo fronte siamo chiamati a fare i conti.

In ciò che segue mi propongo di esaminare: a) alcune linee
portanti dell’attuale dibattito sul multiculturalismo; b) il ruolo delle
tematiche bioetiche all’interno di tale dibattito; c) l’impulso che viene
proprio dalle sfide della bioetica, affinché la cultura occidentale, a dispetto
di molta retorica multiculturalista, ritrovi il senso del suo
universalismo. 

 

Il dibattito sul
multiculturalismo

Se fino a ieri la parola multiculturalismo indicava
semplicemente l’esistenza di diverse culture, oggi la stessa parola, da un
lato, si è arricchita di significato, dall’altro si è fatta equivoca e, per
certi versi, persino ideologica. Al pluralismo delle culture si è aggiunta la
consapevolezza del pluralismo insito in ogni cultura; l’universalismo chiuso
che contrassegnava le culture del passato è stato soppiantato da un
“universalismo sensibile alle differenze”
capace di interagire e di imparare dall’”altro”; siamo passati insomma dalla
incommensurabilità delle diverse culture ad una concezione della cultura sempre
più consapevole della porosità dei suoi confini, della pluralità dei suoi
valori e, in ultimo, dei suoi ineludibili tratti “multiculturali”. Tutto ciò ha
contribuito senz’altro ad arricchire il significato del multiculturalismo;
dietro questo arricchimento, però, si è insinuata anche una tendenza
degenerativa. In alcuni casi, multiculturalismo è diventato sinonimo di
relativismo, quasi che ogni cultura, ogni valore, ogni stile di vita debbano
essere considerati sullo stesso piano; in altri casi la pluralità delle culture
viene usata come una sorta di arma ideologica per gettare discredito sia sulla
tematica dell’universalità, sia, più ancora, su quella dell’identità culturale,
quasi che nell’epoca della globalizzazione tali tematiche siano declinabili
soltanto come esclusione dell’”altro” o come imposizione all’”altro” di
parametri non suoi.

Come ben sappiamo, siamo ormai passati dall’epoca moderna
all’epoca postmoderna. E l’epoca postmoderna fatica non poco a conciliarsi con
l’idea dell’universalità, ritenuta incapace di rendere ragione della
molteplicità e della eterogeneità dei discorsi e quindi delle culture. Il posto
che ieri occupavano le grandi narrazioni universalistiche (l’illuminismo,
l’idealismo, il materialismo storico) è stato preso oggi dal pluralismo dei
giochi linguistici, tutti ugualmente possibili, aperti alla differenza e alla
molteplicità. Nessuno è più in grado di prescrivere un ordine delle cose; tutto
è diventato fluido e, almeno in apparenza, ugualmente legittimo.

Ma se sul piano della molteplicità delle culture, la
modernità sbagliava nel voler sottomettere differenze e eterogeneità ai suoi
parametri universalistici –l’esperienza del colonialismo ne è forse
l’espressione più violenta e più amara; oggi si corre il rischio di cadere
nell’errore opposto, di ritenere cioè che non ci sia più alcun criterio in base
al quale poter misurare la validità dei diversi discorsi e delle diverse
culture. Ogni discorso, ogni cultura sembrano rivendicare una sorta di
riconoscimento a priori, quali che siano i loro contenuti concreti. In questo
modo però, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è detto che venga
facilitato il dialogo o lo sviluppo di una sempre più necessaria sensibilità
per le differenze; può accadere piuttosto che, proprio perché  tutto vale allo stesso modo, le singole
posizioni si irrigidiscano e che la differenza diventi, in quanto tale,
indifferente. Dobbiamo dunque uscire sia dalla logica moderna dell’assimilazione sia da quella posmoderna
dell’equivalenza o dell’indifferenza, sapendo che il dialogo tra
le culture è comunque tanto necessario quanto difficile. Necessario, perché il
mondo si va facendo sempre più piccolo e perché le culture sono sempre più
mescolate nei diversi contesti socio-culturali; difficile, perché la
consapevolezza che tutte le culture abbiano qualcosa di importante da dire non
si è sviluppata allo stesso modo in tutte le culture, né può significare una
sorta di neutralità o di diritto ad affermare la propria differenza, comunque
questa si manifesti.

A questo punto, se vogliamo districarci in modo
soddisfacente dai problemi che abbiamo sollevato, credo che sia indispensabile
spendere qualche considerazione proprio sul concetto di cultura e, in
particolare, sulla trasformazione semantica che tale concetto conosce
soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Precedentemente il
concetto di cultura non rappresentava molto di più di quanto venisse espresso
dal verbo latino colere. Con la
parola “cultura” ci si riferiva principalmente alla coltivazione della terra,
all’allevamento del bestiame o alla coltivazione dello spirito, nel senso di
diventare appunto uomini “colti”. Da quando però, nel 1843, Gustav Klemm
pubblicò il suo libro, intitolato Allgemeine
Culturgeschichte der Menscheit
, con l’intento dichiarato di rappresentare
il graduale sviluppo dell’umanità nel suo insieme, il significato della parola
cultura cambia radicalmente. Qui la parola cultura non si riferisce più
soltanto all’educazione, alla formazione, a quanto cioè viene espresso con la
parola tedesca Bildung, ma a qualcosa
di multiforme che riguarda l’intera civiltà e del quale possono essere
descritte sia le sue componenti particolari, sia lo sviluppo generale. Si
passa, in altre parole, da una concezione della cultura di tipo
umanistico-classico a una concezione di tipo socio-antropologico, da una
concezione ottimistica e in ultimo normativa, fondata sulla fiducia di poter
elevare, raffinare l’uomo, liberandolo progressivamente dall’ignoranza e dalla
superstizione, a una concezione neutrale, descrittiva, tendente a identificare
la cultura con la totalità di una società o di una civiltà. Nel celeberrimo Primitive culture di Edward Burnett
Tylor, del 1871, troviamo una sintetica definizione di questa nuova concezione,
al centro della quale non sta più il singolo individuo, bensì l’intera civiltà,
considerata come “quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze,
l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e
abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società”. La cultura non è
più, o non è più principalmente, un ideale verso il quale gli individui
tendono, bensì ciò che essi hanno acquisito in quanto membri di una società;
diventa, in altre parole, un concetto onnicomprensivo tendente a inglobare
l’intero universo della vita sociale.

Se il primo concetto di cultura, in virtù della sua forte
connotazione universalistica e normativa (si trattava principalmente di
realizzare un ideale di uomo), correva il rischio di essere troppo elitario e,
al limite, etnocentrico; il secondo, implicando un uso plurale della parola
cultura, intesa per lo più in senso meramente descrittivo, corre il rischio di
legittimare un pericoloso relativismo culturale. Non è dunque affatto casuale
che uno dei problemi più scottanti della nostra epoca sia rappresentato proprio
dalla difficoltà che abbiamo a tematizzare l’innegabile pluralità delle
culture, quindi il dialogo tra culture, evitando sia la deriva
dell’etnocentrismo, guidato una logica colonizzatrice e assimilazionista, sia
la deriva del relativismo, guidato dalla logica dell’indifferenza, che però
potrebbe anche rivoltarsi in aggressività.

Comunque la si voglia interpretare, la cultura presenta
sempre due aspetti, strettamente connessi tra loro: un aspetto particolaristico
e uno universalistico. In quanto attività umana, la cultura abbraccia la
totalità dei prodotti dell’uomo; essa è all’opera sia allorché l’uomo coltiva
la terra, sia allorché costruisce l’aratro per coltivarla, sia allorché inventa
%0Aun grande poema per cantarne la bellezza o prega affinché la stagione sia
propizia. Qualsiasi attività umana –spirituale o materiale non fa differenza-,
proprio perché umana, esprime una “forma culturale”, la quale, intrecciata con
le altre forme culturali, va a costituire quello che potremmo definire il mondo
culturale umano. In questo senso, potremmo dire che ogni cultura esprime in
qualche modo un mondo, una totalità. Di qui il difficile problema della
pluralità delle culture e del dialogo interculturale, il quale sarebbe
assolutamente impossibile se la suddetta totalità fosse da intendere come una
“totalità chiusa”. Ma per fortuna non è così.

In quanto attività umana, infatti, in ogni cultura è l’uomo
che si esprime; quindi, al di là delle differenze culturali, c’è in ogni
cultura un tratto comune, rappresentato precisamente dall’umanità e quindi
dalla trascendenza dell’uomo. Ciò significa, tra le altre cose, che ognuno di
noi è certamente plasmato dalla cultura nella quale nasce e vive; come ha ben
sottolineato Ernest Gellner, la cultura nella quale nasciamo rappresenta per
noi un vero e propri “destino”, qualcosa che a rigore si sottrae alle nostre
scelte(4). E’ altrettanto vero,
però, che i pensieri e le azioni degli uomini non sono mai il semplice riflesso
o il semplice correlato della realtà socio-culturale nella quale essi nascono e
vivono. Per quanto il mondo nel quale siamo nati rappresenti per noi un destino
che ci rende inevitabilmente degli esseri socialmente e culturalmente
condizionati, la relazione che instauriamo con esso è tuttavia sempre più o
meno creativa, proprio perché, in quanto uomini trascendiamo costantemente noi
stessi e quindi anche le condizioni socio-culturali della nostra esistenza.

Così come ogni uomo, pur essendo un animale
socio-culturale, non è mai riducibile in toto alle condizioni socio-culturali o
biologiche della sua esistenza, allo stesso modo nessuna cultura, pur
esprimendo una totalità di
significato, può arrogarsi il diritto di coprire tutto lo spazio di dicibilità
di ciò che è “umano”. L’uomo è dunque il vero metro di misura di ogni cultura.
Da questo punto di vista una cultura non vale, a priori, l’altra; il rispetto
della dignità dell’uomo è il vero criterio normativo di una cultura; ed è
nell’uomo il vero fondamento della pluralità delle culture. Con le parole
dell’enciclica Fides et Ratio (n.70),
potremmo anche dire che “Le culture, quando sono profondamente radicate
nell’umano, portano in sé la testimonianza dell’apertura tipica dell’uomo
all’universalità e alla trascendenza”.

Universalità dell’umano e pluralità delle culture: ecco
dunque i poli all’interno dei quali soltanto ha senso porre il problema di un
dialogo autentico tra le culture.

 

Le sfide della
bioetica nella società multiculturale

Il  fatto che nel
dibattito sul multiculturalismo si riproponga in modo abbastanza perentorio il
problema dell’”umano”, quale origine e orizzonte dei nostri discorsi e quale
unica possibilità di conciliazione delle diverse prospettive, diventa un
elemento di fondamentale importanza, allorché spostiamo l’attenzione sui
problemi bioetici che surriscaldano e surriscalderanno sempre di più il
dibattito pubblico nelle nostre società multiculturali. A questo livello
infatti l’esigenza di orientamenti comuni, non sincretistici, bensì orientati
in senso universalistico, risulta ancora più urgente, proprio perché ci
rendiamo conto che ne va in primo luogo del senso stesso della nostra umanità.
Lo sviluppo della società globale, avvicinando tra loro le diverse culture,
mostra inevitabilmente anche i diversi modi in cui le diverse culture
concepiscono le questioni relative al nascere e la morire, alla salute e alla
malattia, al benessere e alla sofferenza. Se poi consideriamo che queste
diverse posizioni bioetiche debbono anche fare i conti con uno sviluppo
dell’apparato scientifico-tecnologico che, ormai su scala globale,
costantemente le sollecita a confrontarsi con sempre nuove sfide, ecco che il
quadro si presenta in tutta la sua complessità. Sullo sfondo vediamo delinearsi
infatti, non soltanto il tanto discusso problema del modo in cui le diverse
culture declinano il rapporto tra religione e politica, ma anche i problemi connessi
alle mutilazioni sessuali, quelli relativi all’alimentazione, all’inumazione,
alle diverse pratiche mediche; ci sono i problemi connessi al significato che
le diverse culture attribuiscono allo sviluppo tecnico-scientifico in generale
e alle tecnologie genetiche in particolare, quelli relativi all’impatto che il
prolungamento della vita attraverso le biotecnologie avrà sulla struttura delle
diverse società, quelli relativi allo sviluppo dei cosiddetti organismi
geneticamente modificati, quelli relativi all’impatto che le tecniche di
diagnosi prenatale potrebbero avere nella selezione del sesso dei nascituri in
culture, come quella cinese o quella indiana, notoriamente portate a
considerare un onere economico la nascita di figlie femmine; ci sono infine i
problemi connessi alla clonazione umana, all’eutanasia, al crescente divario
biotecnologico tra paesi ricchi e paesi poveri, alle tecniche di
contraccezione, sterilizzazione e aborto, esportate e spesso imposte ai paesi
meno sviluppati del mondo; e si potrebbe continuare. Si tratta in ogni caso di
problemi bioetici destinati a diventare sempre più scottanti, man mano che
uomini appartenenti a etnie, culture, religioni differenti saranno portati
sempre più a convivere in uno stesso spazio geografico e sociale.

Fermo restando quanto abbiamo già detto a proposito della
necessità che nel dialogo interculturale si evitino sia gli atteggiamenti di
tipo imperialistico, sia quelli di tipo relativistico, mi sembra che le grandi
sfide di carattere “bioetico” stiano facendo emergere due grandi orientamenti
antropologici di fondo. Cristallizzando un po’ le posizioni, potremmo dire che
il primo di questi orientamenti guarda soprattutto alla innegabile plasticità
della natura umana; si affida in primo luogo alla libertà individuale e, quanto
alla possibilità che la natura umana possa essere modellata e rimodellata dal
progresso biotecnologico, non sembra porre altri limiti etici se non l’accordo
delle persone interessate. L’altro orientamento, invece, guarda soprattutto
alla natura umana come alla natura di “qualcuno”, la cui incommensurabile
dignità si presenta, fin dal momento del suo concepimento, come indipendente
dai suoi possibili predicati o dal riconoscimento altrui e che, in quanto tale,
impone immediatamente alcuni “limiti” invalicabili per qualsiasi manipolazione
che non sia finalizzata al suo proprio bene. Si tratta di orientamenti
antropologici assai difficili da conciliare, che con diversa intensità
attraversano un po’ tutte le culture e che prevedibilmente surriscalderanno
sempre di più le discussioni bioetiche nelle nostre società multiculturali. In
particolare però mi sembra che questi due diversi orientamenti antropologici
trovino oggi la loro contrapposizione più virulenta all’interno della cultura occidentale,
dove in effetti ciò che ci divide da noi stessi sembra molto più profondo di
ciò che ci divide dagli altri, le divisioni intraculturali molto più profonde
di quelle interculturali. Le questioni inerenti la natura dell’embrione umano,
le tecniche di riproduzione artificiale, la possibile clonazione umana o
l’eutanasia stanno generando polarizzazioni talmente radicali nella cultura
occidentale, da mettere a dura prova persino la nostra propensione al dialogo e
alla discussione. Un esempio, per rendere l’idea di quale virulenza si scatena,
allorché si affrontano questioni del genere: “Chi protegge con tabù le cellule
embrionali, perché ritiene sacra la vita, non merita più rispetto di chi
protegge con tabù le cellule sanguigne o vieta di mangiare carne di maiale;
siano liberi di praticare queste cose e di persuadere gli altri a praticarle,
senza imporle, ma non pretendano anche rispetto”. E ancora: “Nello scarto tra
il sapere da cui si dipende e la difficoltà di possederlo affondano le radici
le credenze arbitrarie e le aspettative infondate: quanto meno si capiscono le
cose, tanto più si tenta di ‘dare un senso all’esistenza’ (come si dice),
attaccandosi alle idee più arbitrarie”.
Se poi a questo aggiungiamo certe esternazioni di autorevoli scienziati che,
come abbiamo già visto nel secondo capitolo, in nome della scienza, vorrebbero
subordinare il diritto alla vita al superamento di determinati test genetici,
oppure la leggerezza con la quale si accettano l’eutanasia e la clonazione
umana come espressione di un diritto di liberà, senza considerare le
conseguenze che esse avrebbero, rispettivamente, sull’autocomprensione delle
persone gravemente ammalate  e sulle
relazioni parentali, su quelle tra i sessi o sull’identità dell’eventuale
clone, credo che il quadro si
delinei in tutta la sua forma inquietante. Vediamo emergere infatti sia un
apparato scientifico-tecnologico che sembra essersi ormai emancipato da ogni
finalità umana, per procedere come un “fine in se stesso”, sia, di conseguenza,
la profonda crisi di un’idea che ha rappresentato per secoli il pilastro
principale della nostra cultura: la centralità e l’indisponibilità della vita
umana. Insieme a tutto questo, però, e proprio a partire dalla crisi di cui
stiamo parlando, si scorge anche qualcos’altro: precisamente la ripresa di una
riflessione sull’uomo e sulla sua dignità che indubbiamente va in tutt’altra
direzione.

Chi pensava che lo sviluppo scientifico-tecnologico avrebbe
definitivamente mandato in soffitta le vecchie concezioni metafisico-religiose
mi sembra che in questi ultimi anni abbia avuto parecchi motivi per ricredersi.
L’emergere della cosiddetta questione ecologica, le discussioni apertesi sul
fronte bioetico, il successo di autori come Hans Jonas o Robert Spaemann, la
vigorosa ripresa, proprio sui temi riguardanti il rispetto della vita umana, da
parte del magistero della Chiesa cattolica testimoniano una crescente
consapevolezza dei rischi che potrebbero venire all’umanità da un apparato
scientifico-tecnologico sempre più autorefenziale. Come si sente dire con
sempre maggiore insistenza, la realizzabilità tecnica di qualcosa non è una
ragione sufficiente affinché la tal cosa venga realizzata. Cresce di
conseguenza la consapevolezza dei limiti etici dello sviluppo tecnologico. Il
mondo e tutto ciò che esso contiene è certamente “per noi”, ma tutte le cose
hanno anche un loro specifico telos,
diciamo pure una natura “in sé” che, in quanto tale, ha una “dignità” non
riducibile all’utilità che possono trarne gli uomini. Di qui l’urgenza di un
atteggiamento più rispettoso nei confronti della natura che ci circonda. Quanto
alla natura umana, ossia agli uomini, essi non sono “qualcosa”, bensì
“qualcuno” e, in quanto tali, hanno una dignità in senso forte che li sottrae
per principio alla nostra disponibilità.
Ecco alcuni pensieri “classici” che stanno riguadagnando in attualità, proprio
sotto la pressione dei nuovi problemi generati dallo sviluppo della scienza e
della tecnica, e che riconducendoci al cuore della nostra tradizione occidentale,
ci inducono a fare i conti con quella che considero una delle principali
emergenze del momento storico che stiamo attraversando: la dimenticanza di noi
stessi, della nostra identità e dei fondamenti che hanno reso grande la nostra
cultura.

Per
molti versi è curioso che ogni volta che si tira in ballo la tematica
dell’identità una parte considerevole della nostra cultura evochi il fantasma
del fanatismo e dell’aggressività, quasi che ormai l’unica scelta che abbiamo
sia quella di conformarci semplicemente ai canoni “liquidi” di un mondo sempre
più frammentato e privo di riferimenti normativi condivisi, i canoni di una
cultura “debole”, orgogliosa della sua debolezza, fondamentalmente relativista
e, in quanto tale, aperta indifferentemente a tutto. Ma non è così. Per
fronteggiare le grandi fide bioetiche che abbiamo di fronte, ma anche quelle di
certo fondamentalismo islamico, aggressivo e terrorista, non possiamo restare
impantanati nella palude dei desideri spacciati per diritti o del buonismo spacciato
per saggezza; dobbiamo piuttosto riprendere consapevolezza di un’identità –la
nostra- che è, sì, aperta, ma non relativista, permeabile verso l’esterno,
diciamo pure, inclusiva nei confronti dell’altro, ma anche decisa a
fronteggiare ciò che la minaccia dall’interno e dall’esterno. Come in parte ho
cercato di esplicitare, la forza della nostra cultura sta principalmente
nell’idea di dignità dell’uomo, di ogni uomo. E’ grazie a questa idea che
l’universalità dell’umano si concilia con la particolarità dei modi di
attuarla, sia sul piano della vita individuale, sia sul piano della vita dei
popoli e delle nazioni. E’ sempre grazie a questa idea che siamo pervenuti a
quell’ “universalismo interattivo”, di cui parla Seyla Benhabib, che ci consente di relazionarci
continuamente con ciò che è “altro”, senza perdere la consapevolezza di ciò che
siamo, di tenderci il più possibile verso l’altro, senza spezzare i legami che
abbiamo con noi stessi, con la nostra storia e la nostra tradizione.

 

Ripensare
l’identità della cultura occidentale

Mentre il mondo occidentale sembra avviato sulla strada
della “post-identità” e altri mondi, vedi una parte di quello islamico,
rischiano di esasperare la propria identità in modo sempre più esclusivo e
aggressivo, dovremmo tutti sentire con forza quanto sia importante che
nell’autocomprensione di ogni individuo e di ogni cultura trovi spazio la
valorizzazione di ciò che è “umano” in tutte le culture. Invece, per motivi
diversi, proprio noi occidentali sembriamo come voler fuggire da questa realtà,
affidandoci ora a una perniciosa indifferenza, ora a un’ altrettanto pernicioso
senso di superiorità, frutto, l’una, di un diffuso e inconsistente relativismo
culturale e, l’altro, di un altrettanto inconsistente pretesa che a valere sia
soltanto la propria cultura. Se però è vero che il dialogo e il rispetto
dell’”altro” debbono diventare i pilastri su cui appoggiare le relazioni
interpersonali e interculturali della società globale; se è vero altresì che
quest’ultima, con la sua crescente differenziazione, costringe non soltanto le
diverse culture, ma gli stessi individui che si riconoscono in una medesima
cultura, a essere, diciamo così, “aperti” alle ragioni dell’altro, vista la
pluralità di relazioni in cui ciascuno di noi costruisce ormai il proprio io;
allora, e qui mi riferisco soprattutto agli occidentali in generale e a noi
europei in particolare, il primo obbligo che abbiamo, nei confronti di noi stessi e degli altri, è precisamente quello di
abbandonare le secche del relativismo nel quale ci siamo impantanati,
riprendendo consapevolezza di ciò che siamo.

L’odierna globalizzazione, in quanto fenomeno
principalmente occidentale (l’Occidente che “diventa mondo”, secondo la famosa
immagine weberiana), sta mostrando invero una cultura, la nostra cultura, che,
col suo relativismo, di fatto procede spesso in modo vandalico nei confronti
delle altre, senza avere tuttavia (e si direbbe paradossale) nessuna
presunzione di affermare se stessa. Se l’Eurocentrismo colonialista di fine
ottocento si alimentava della convinzione largamente diffusa, grazie
soprattutto al darwinismo sociale e allo scientismo positivista, di
rappresentare la cultura superiore che in quanto tale avrebbe “civilizzato” il
mondo -il colono, come dice Franz Fanon, quando vuole descrivere bene il mondo
colonizzato, “si riferisce sempre al bestiario”, tanto è convinto della sua superiorità umana-; oggi assistiamo
a una cultura che sembra addirittura diventare mondo, previo svuotamento
progressivo di se stessa, delle sue istanze propriamente “umane”, a tutto
vantaggio di imperativi funzionali (quelli del mercato, della scienza, della
tecnica), i quali, a loro volta, sembrano funzionare sempre di più come se gli
uomini non esistessero. “L’uomo non è più il metro di misura della società”, dice espressamente Niklas Luhmann.
Si tratta di una forma di violenza per molti versi nuova; una violenza che
produce danni incalcolabili all’interno e all’esterno dell’Occidente; una
violenza che eludendo in un certo senso il tema dell’”umano”, elude anche la
tematica dell’identità e del confronto tra identità diverse. Tutto ciò che è
“altro” viene posto di fronte all’alternativa secca: adattarsi o scomparire; ma
in questo modo viene offerto anche un pericoloso alibi alle più svariate
reazioni integraliste, terrorismo incluso.

 Come invece ho
scritto altrove, è ormai l’elastico la metafora ideale di una identità
complessa. Ma per dare a questo
elastico la giusta flessibilità non servono certo l’indifferenza, mascherata
magari da tolleranza, o le esortazioni a coltivare la “virtù della mancanza di
orientamento”. Ci vogliono al
contrario convinzioni forti, un deciso orientamento alla libertà e alla dignità
dell’uomo e, soprattutto, una grande, creativa, fantasiosa capacità di
testimonianza.        

A questo proposito c’è un passaggio nell’ultimo libro di
Giovanni Paolo II, Memoria e Identità,
che considero di fondamentale importanza. E’ quello in cui, nell’intento di
valorizzare a pieno il ruolo fondamentale della cultura nella vita dei popoli e
delle nazioni, veniamo sollecitati, non tanto a elaborare una “teoria della
cultura”, quanto a rendere “testimonianza alla cultura”. Si tratta di un ulteriore squarcio di luce aperto da questo
grande Pontefice su una delle più intricate sfide del nostro tempo: il
confronto interculturale, appunto. Il confronto con le culture “altre” non è
mai soltanto un problema di tolleranza, di reciprocità o di integrazione; è
certo anche questo; ma guai se resta soltanto questo, diventando magari un
alibi per non mettersi in gioco fino in fondo, per nascondersi. E’ la nostra
stessa umanità, l’umanità che condividiamo con tutti gli uomini del mondo, ad
esigere che, nel confronto con coloro che provengono da culture differenti
dalla nostra, ciascuno di noi sia in primo luogo se stesso, un testimone
creativo della propria identità.

Del
resto, se ci pensiamo bene, l’incontro con l’altro o con una cultura “altra” è
sempre in primo luogo un’avventura con noi stessi, con la cultura che ci è
propria. Un po’ come quando si traduce un testo. “Comprendere è tradurre”, ha
scritto George Steiner; ed è in
quest’opera di traduzione che noi mobilitiamo veramente tutte le risorse di cui
disponiamo nella nostra lingua madre; è nell’incontro con l’altro che noi
possiamo scoprire non soltanto i nostri limiti, ma anche i tesori che si
nascondono nella nostra cultura e ai quali avevamo smesso di pensare o non
avevamo mai pensato prima. E’ per questo che, al limite, dobbiamo persino
ringraziare l’altro per averci aiutato a scoprirli; è per questo che l’altro
può diventare persino una risorsa, un’opportunità, un impulso ad andare più a
fondo in noi stessi e quindi ad arricchirci.

Il Cristianesimo, pur con tutte le inadeguatezze,
sconfinate nel passato persino nel sangue, costituisce da oltre duemila anni
uno degli esempi più riusciti di questa capacità di imparare dall’altro senza
rinunciare a se stesso. L’idea della trascendenza, la particolare escatologia
cristiana, la stessa chiesa, nel momento in cui entrano nella storia di un
popolo e di una nazione, istituiscono una sorta di tensione costante in tutta
la realtà. Di fronte al Dio di Abramo e di Gesù Cristo, nessun ordine del
mondo, se così si può dire, è più lo stesso, nessun uomo e nessuna cultura sono
più “totalmente altri”. Come aveva ben capito Hegel, l’Occidente, proprio in
virtù del principio cristiano del “compimento”, non conosce un “esterno
assoluto”. E nonostante i
fraintendimenti che possono esserci stati in proposito nel corso dei secoli,
oggi pare abbastanza evidente che abbiamo a che fare con un ordine sempre
attento alle distinzioni (le cose della scienza e quelle della fede, le cose di
Cesare e quelle di Dio), sempre “perfettibile”, sempre sollecitato a una
“novità” che, di per sé, non ammette irrigidimenti né sul piano della vita
individuale, né su quello della vita sociale.

Da questo punto di vista, la traduzione dell’”altro” di cui
parlavo deve diventare davvero una forma di testimonianza; una testimonianza
che, attraverso Gesù Cristo, va resa alla dignità di ogni uomo, senza
pretendere di conoscere in anticipo “che cosa” si dovrà volta a volta tradurre,
né “come” farlo, né se sarà possibile farlo, poiché zone più o meno ampie di
intraducibilità e quindi di possibili conflitti vanno sempre messe nel conto
nel rapporto tra culture. Come ha scritto MacIntyre, “le tradizioni, quando
sono vitali, implicano continui conflitti”;
solo culture morte possono stare una accanto all’altra senza frizioni di sorta.
Ma ciò non toglie che la traduzione sia possibile, che cioè tutte le lingue
possano arricchirsi, grazie al nuovo e all’imprevisto che ogni volta scaturisce
dal concreto incontro con l’altro. Un mondo che va mescolando individui e
popoli di ogni cultura ha bisogno in questo senso di traduttori-testimoni che
conoscano bene la propria lingua e che abbiano sufficiente fantasia creatrice
per tradurre quella degli altri e, quindi, tradurla in quella degli altri. In
questo modo intendo il dialogo interculturale di cui oggi tanto si parla e di
cui tanto si sente il bisogno. Un mondo dove gli uomini riusciranno tanto più a
convivere in pace, quanto più saranno consapevoli dell’ “umanità” che si
esprime nella propria cultura e sapranno testimoniarla in mezzo agli “altri”,
insieme agli “altri”, con il dovuto rispetto, la necessaria apertura,
addirittura con amore. Altro che relativismo culturale. E’ su questa capacità
di rendere testimonianza in ultimo alla dignità dell’uomo che si misura oggi la
vera identità, la vera apertura, la vera universalità, al limite, la vera
“superiorità” di qualsiasi cultura. Di certo possiamo dire che in questa
capacità si incarna la realtà spirituale dell’universalismo cristiano, che
tanto ha attinto e tanto ha saputo incidere sulla cultura occidentale. E poiché
le grandi realtà spirituali, quando esistono, hanno quasi sempre il carattere
di un compito da assolvere, non stupisce poi molto che sia proprio la suddetta
testimonianza ciò di cui il mondo intero, oggi come ieri, ha massimamente
bisogno. Una testimonianza che le sfide del multiculturalismo e della bioetica
rendono ancora più urgente.