Le strade da seguire per uscire dalla crisi

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Le strade da seguire per uscire dalla crisi

25 Marzo 2008

Il libro recentemente pubblicato
da Giulio Tremonti ha come titolo La
paura e la speranza
, e sostanzialmente si chiede cosa dovrebbe, o potrebbe,
fare un paese in crisi nell’epoca di un’asimmetrica crisi della
globalizzazione.

Si tratta indubbiamente di un problema serio, che ci riguarda
direttamente, e che induce anche a chiederci come difenderci da quei paesi, ad
esempio, la Cina, che non rispettando certe regole (democrazia interna, tutela
dell’ambiente e del lavoro, etc.) sono in grado di immettere nel mercato
internazionali beni a prezzi tali da eliminare la concorrenza dei paesi che
producono gli stessi beni rispettando (o rispettando maggiormente) quelle
regole.

Il libro ha suscitato un vivace
dibattito nel quale la posizione di Tremonti, a motivo del suo immaginare e
proporre ricette per salvaguardare le economie sotto scacco, è stata
definita  ‘colbertista’ o
‘meo-mercantilista’. Si è parlato di un atteggiamento reazionario (che è ben
più, e peggio, di ‘conservatore’) nei confronti del mercato che ormai si
contrapporrebbe ad un ‘liberismo di sinistra’ presentato come un peana alla
globalizzazione e all’apertura dei mercati. Tutte queste critiche, in fondo,
mirano a insinuare un dubbio: che il partito a cui fa capo Tremonti abbia ormai
abbandonato gli ideali del mercato e della concorrenza, che si sia chiuso in un
ottuso protezionismo, e che pertanto non abbia più nulla a che vedere con il liberalismo.
La scelta per i dazi è vista come una scelta contro la libertà dei commerci e,
come conseguenza, lascia l’etichetta ‘liberismo’ (da ‘selvaggio’ diventato
inaspettatamente un brand positivo e prestigioso) nelle mani di quanti alla
domanda se il liberismo sia di sinistra, rispondono, e senza ombra di dubbio,
%0Aaffermativamente.

In termini cultural-politici il
risultato è che il libro di Tremonti mostrerebbe oltre ogni ragionevole dubbio
che il PdL non soltanto, e da tempo, non ha più niente a che vedere col
‘liberalismo’ (cosa anche possibile, dato che sotto questa definizione si cela
ormai più che di tutto), ma ha anche abiurato al ‘liberismo’ (inteso come
teoria economica sostenente i vantaggi a lungo termine del libero scambio).

Tutto ciò induce a chiedersi se
quella di Tremonti potrebbe essere anche la politica economica dell’eventuale
governo Berlusconi, e se essa potrebbe essere una politica economica adeguata
alle nubi e agli uragani che si stanno minacciosamente avvicinando. Ancora una
volta sembra si voglia sottintendere che quel possibile (anzi probabile ed
auspicabile governo) sarebbe inadeguato alla situazione economica
internazionale che si sta delineando.

Ma le cose stanno in modo così
semplice? Da sempre, tra quelli che si definiscono liberali esiste una corrente
di pensiero che pur non essendo per principio ostile all’economia di mercato
ritiene che le sue dinamiche non sempre portino spontaneamente a situazioni
ottimali (per lo meno nel breve e medio periodo) e che quindi necessitino di
indirizzi e di correttivi temporanei, ed una corrente di pensiero che,
ottimisticamente, ritiene che quelle dinamiche portino sempre a situazioni
ottimali anche nel breve e medio periodo. Di modo che ogni azione politica
sarebbe inutile se non dannosa. Il fatto è che negli ultimi tempi si assiste
con sconcerto a situazioni che sembrano dar ragione contemporaneamente ad
entrambe le correnti. Anche perché i politici quando intervengono per regolare
finiscono puntualmente o per sbagliare, o per produrre normative che sono
destinate ad essere travolte dal mutare degli eventi.

Il problema di fondo, in realtà,
è cosa possa realisticamente fare la politica e cosa possano fare le politiche
nazionali ammesso che in certi casi interventi si rendano necessari se non
altro per cercare di evitare danni certi.

Di fronte a questi dibattiti, che
investono problemi teorici noti ed appartenenze culturali prima che
ideologiche, ma soprattutto di fronte alla piega che sta assumendo la crisi
economico-finanziaria internazionale, altri, ben più pessimisti, si chiedevano
se quelli prospettati da Tremonti non siano che pannicelli caldi.

Di fatto, e al di là delle
polemiche, Tremonti ha posto un problema serio e ha indotto un po’ tutti a
chiedersi cosa fare in pratica se la situazione che si sta delineando dovesse
realizzarsi.

Da un altro punto di vista il
problema è che cosa si può concretamente fare, oggi in Italia, per uscire da
una crisi di crescita strutturale in un momento di crisi economica e
finanziaria internazionale. Sintetizzando e semplificando, esso può essere
descritto chiedendoci se è proprio vero che quando un sistema entra in una
crisi tale da far parlare di declino, le sole vie d’uscita per cercare di
invertire la tendenza sono:

a)
ripristinare i valori identitari smarriti;

b)
stimolare la domanda interna tramite incentivi alla produzione (opere
pubbliche) o riduzione di imposte e di tasse ai privati e alle imprese;

c) incrementare e finalizzare la
normazione (restrizioni ai comportamenti e alla libertà di scelta);

d) istituire dazi e protezioni;

e) varie combinazioni tra tali presunti
rimedi.

Chi scrive è lungi dal negare che
in certe situazioni intervenire tempestivamente con un cocktail di rimedi sia
indispensabile, e non ignora che la politica sia la difficile arte di
accelerare i processi verso un fine ritenuto desiderabile, o, più
prosaicamente, l’arte di contenere i danni. Tuttavia è anche convinto che tutti
quei rimedi presi singolarmente non rappresentino una soluzione adeguata già
nel medio periodo e che la loro combinazione possa provocare più problemi di
quanti sia in grado di risolverne.

Tutto ciò è comunque lungi dall’inficiare
la tesi che quando la situazione diventa grave e complessa, la via migliore sia
quella di cercare di semplificarla. Non si tratta di rivalutare il buon senso
comune (che comunque non guasta mai) che talora sconfina nel semplicismo, ma di
prendere atto che non esistono soluzioni complesse a problemi complessi che non
abbiano conseguenze indesiderate e che non si risolvono in un incremento dei
costi di funzionamento del sistema stesso accelerandone il declino. Per di più,
la semplificazione istituzionale fa un tutt’uno coi processi di
liberalizzazione. Il che porta a chiedersi se in situazioni caratterizzate da
avverse congiunture interne ed esterne, anche perché meno dispendioso dei
rimedi prima enunciati, il processo di liberalizzazione e di radicale
semplificazione normativa non sia preferibile alle ricette tradizionali di
politica economica prima esposte e diffuse tanto nella destra quanto nella
sinistra del nostro schieramento politico.

Ciò non significa nascondere che
i processi di semplificazione e di liberalizzazione riescono a dare i frutti
migliori quando una società è caratterizzata da un insieme di vincoli informali
(valori e credenze, anche identitarie, condivise) che sia sufficientemente
robusto (quantunque quel ‘sufficientemente’ sia molto difficile da
quantificare), ma non tendente alla piattezza, anche se non omogeneamente
condiviso e distribuito. L’importante è che quei valori, quei talenti e quelle
conoscenze siano in qualche misura complementari. Non a caso, se fondati su ‘regole
sufficientemente certe’, i processi di liberalizzazione e di semplificazione
sono anche in grado di rafforzare quei vincoli informali e quei valori
condivisi che sono di indubbio aiuto nei momenti di crisi.

Ovviamente a condizione che tutti
i partecipanti al gioco adottino le stesse regole.

Molti degli interventi al
dibattito sollevato da Tremonti lasciano invece pensare che il problema sia
risolvibile anche evitando di prendere in considerazione il fatto che
l’osservanza o meno di regole condivise sia un costo (o una sua diminuzione)
che finisce per riflettersi negativamente o positivamente sull’insieme dei
fattori che determinano la competitività di un ‘sistema stato’.

Concludendo, se è vero che non si
potrà risolvere la crisi istituendo dazi e protezioni, è altrettanto vero che
non se ne potrà uscire accelerando il processo economico con incentivi più o
meno sofisticati. Oggi, per vincere una competizione tra Ferrari non basta
prenderne una degli anni ’80, farle un restauro conservativo e ‘truccarla’. E
neanche tentando di far rivivere teorie economiche che appartengono ormai al
passato (ad esempio l’economia sociale di mercato’) e che sono inadeguate ad
affrontare e a risolvere i problemi attuali.

Ma ciò che è più importante è
sfatare l’illusione che il ritiro dalla competizione internazionale per la
produzione di beni, conoscenza, innovazione e servizi, ci consentirà di
concentrare le scarse risorse su turismo, arte ed Italian Stile. La concorrenza
esiste anche lì!