Le tappe del viaggio del Papa in Austria
10 Settembre 2007
La visita di
Benedetto XIV in Austria volge al termine. Al viaggio apostolico del Pontefice, caratterizzato da un clima
ingeneroso e da una musica sublime, era stato posto il titolo “Guardare a
Cristo”. Vogliamo ripercorrere alcune
tappe del viaggio attraverso le parole del Papa, rese in varie occasioni
d’incontro con i giornalisti, con i fedeli e con il clero.
Nell’intervista concessa alla stampa sull’aereoplano nel tragitto Roma-Vienna il Papa ha sottolineato che, come il suo predecessore Giovanni Paolo II, si
sarebbe recato come pellegrino a Mariazell. La devozione a tale immagine della
Madonna, di cui quest’anno ricorre l’850° anniversario, è particolarmente
sentita dal popolo austriaco, ungherese e slavo (essa è infatti invocata come Magna Mater
Austriae, Magna Hungarorum, Domina e
Mater Gentium Slavorum). Sua Santità ha
sottolineato che quel Santuario è da secoli meta di pellegrinaggio per fedeli
di diverse nazionalità e che questo è un segno dell’unità che crea la
fede: unità tra i popoli, perché è un pellegrinaggio di molti popoli, unità tra
i tempi e, quindi, segno della forza unificante, della forza di riconciliazione
che c’è nella fede. Il Papa poi ha manifestato la vicinanza a quanti, fra i
fedeli austriaci, hanno sofferto per rimanere fedeli alla Chiesa. La Chiesa austriaca, infatti,
ha vissuto momenti di grande crisi negli ultimi anni: parte del clero intendeva
allontanarsi dagli insegnamenti immutevoli della Chiesa in materia di morale
sessuale e familiare. Il Papa ha chiarito che l’onda non si è ancora esaurita e
che spera di “potere un po’ aiutare nella guarigione di queste ferite”, ma che
lo rinfranca vedere un nuovo slancio nella Chiesa. In quella sede, Benedetto ha
anche accennato al timore della progressiva secolarizzazione del popolo di Dio
e alla dimensione meramente privata e spiritualista con cui si vive il “fatto
religioso”; tale questione sarà spesso ripresa negli altri interventi e calata
su casi concreti.
Particolare nota meritano, poi,
alcuni passaggi del discorso rivolto ai rappresentanti delle autorità e del
corpo diplomatico. Il Papa, infatti, in quella sede, ha trattato dell’aborto,
assumendo le vesti di “avvocato di una richiesta profondamente umana e
portavoce dei nascituri che non hanno voce”. Ha parlato del calo demografico,
chiedendo “di fare tutto il possibile per rendere i Paesi europei di nuovo più
aperti ad accogliere i bambini”, pregando di incoraggiare “i giovani, che con
il matrimonio fondano nuove famiglie, a divenire madri e padri”, sottolineando
che da ciò deriva bene all’intera
società. Serve, dice il Papa, “nei nostri Paesi di nuovo un clima di gioia e di
fiducia nella vita, in cui i bambini non vengano visti come un peso, ma come un
dono per tutti”. Tali parole del Papa fanno tornare alla mente l’intervento del
Card. Ruini alla Summer School della Fondazione Magna Carta, che tanta eco ha
avuto nella stampa con riferimento all’aborto, ma meno con riferimento
all’apertura alla vita. Tali temi, invece, sono intimamente connessi e centrali
per impostare una corretta prospettiva antropologica.
Il Papa è poi entrato nel
dibattito sul cosiddetto “attivo aiuto a morire”. Ha mostrato perplessità circa
la possibilità di considerare pienamente coscienti le persone gravemente malate
o anziane, perché chiedano la morte o se la diano da sé ed ha affermato che “la
risposta giusta alla sofferenza alla fine della vita è un’attenzione amorevole,
l’accompagnamento verso la morte – in particolare anche con l’aiuto della
medicina palliativa – e non un attivo aiuto a morire”. Ha manifestato la
necessità di riforme strutturali in tutti i campi del sistema sanitario e
sociale e l’organizzazione di strutture di assistenza palliativa che
comprendano anche l’accompagnamento psicologico e pastorale delle persone
gravemente malate e dei moribondi, dei loro parenti, dei medici e del personale
di cura.
Ha, poi, citato il filosofo
Jürgen Habermas (insieme al quale ha scritto i libri: Etica, religione e stato liberale, Morcelliana, 2005, € 6.00
e Ragione
e fede in dialogo, Marsilio, 2005, € 7,50) per spiegare il
rapporto fra fede e religione (su cui si veda anche l’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II).
Tale ultimo argomento è stato
approfondito nell’omelia di sabato 8 settembre, presso il Santuario di
Mariazell, trattando il tema della verità, con particolare riferimento alla
situazione dell’Europa di oggi.
Il Sommo Pontefice ha affermato
che la fede in Cristo rende l’uomo capace della verità. Le teorie, invece,
secondo cui la verità è troppo grande ed, in ultima istanza, inaccessibile
all’uomo sarebbero, secondo la ricostruzione del Papa, “il nocciolo della crisi
dell’Occidente, dell’Europa”. L’inesistenza della verità, infatti, preclude
ogni distinzione fra bene e male, con l’effetto che, ad esempio, le grandi e
meravigliose conoscenze scientifiche possono aprire prospettive importanti per
il bene, per la salvezza dell’uomo, ma anche diventare una terribile minaccia,
importando la distruzione dell’uomo e del mondo.
Perché la “V”erità non può
sfociare in intolleranza? Il Romano Pontefice risponde mediante una
ricostruzione iconografica che trae dal santuario di Mariazell, ove Gesù è
presente in due immagini: come bambino in braccio alla Madre e, sull’altare
principale della basilica, come crocifisso. Ciò lascia intendere che la “V”erità
non si afferma con la spada, “ma è umile e si dona all’uomo solamente mediante
il potere interiore del suo essere vera”, si manifesta nell’amore.
Poi, Benedetto XVI offre
un’interpretazione dei comandamenti, molto diversa da quella in voga, che li dipinge
come divieti invasivi della libertà del singolo. Egli declina il Decalogo come
un elenco di gioiose affermazioni: «il Decalogo è innanzitutto un “sì” a Dio, a
un Dio che ci ama e ci guida, che ci porta e, tuttavia, ci lascia la nostra
libertà, anzi, la rende vera libertà (i primi tre comandamenti). È un “sì” alla
famiglia (quarto comandamento), un “sì” alla vita (quinto comandamento), un “sì”
ad un amore responsabile (sesto comandamento), un “sì” alla solidarietà, alla
responsabilità sociale e alla giustizia (settimo comandamento), un “sì” alla
verità (ottavo comandamento) e un “sì” al rispetto delle altre persone e di ciò
che ad esse appartiene (nono e decimo comandamento)».
Altro momento centrale del
viaggio austriaco è stato l’incontro col clero e con i religiosi. Il Papa ha
affermato la radicalità della sequela di Cristo e la necessità, per tutti i
cristiani, ma specialmente per
sacerdoti, religiosi e religiose, della questione della povertà. Richiamando
alcuni brani del Nuovo Testamento ha evidenziato la necessità che ognuno,
secondo il proprio stato e la propria vocazione, viva la povertà. Ma che
significa vivere la povertà per una persona che sta nel mondo, che non ha una
vocazione alla vita totalmente contemplativa ma svolge un’attività
professionale, conduce una vita familiare, ecc…? E’ evidente che in tali casi
la povertà non è quella propria dei seguaci del Poverello d’Assisi, ma piuttosto
un serio distacco dai beni materiali: in poche parole possedere i beni della
terra, ma non lasciarsi possedere da loro, utilizzarli per vivere e non vivere
in loro ragione.
Anche a quest’ultimo tema va
ricondotta parte dell’omelia di Domenica, nel Duomo di Santo Stefano, a Vienna,
nel quale il Papa ha richiamato l’importanza della Domenica, trasformata giorno
dedicato al culto divino e al riposo, a tempo libero senza alcuna anima. In
tale frangente ha richiamato la vicenda di quei 49 abitanti di Abitene che, sorpresi dai soldati romani durante la
liturgia in una casa privata, vennero condotti davanti al proconsole Anulino e
da questi interrogati. Prima di versare il sangue del loro martirio, uno di
loro, Emerito, alla domanda sul motivo che li aveva spinti a trasgredire al
divieto dell’imperatore, rispose: sine dominico non possumus.
Il Papa, dunque, chiama ancora
una volta l’Europa e l’Occidente, ad abbandonarsi a Dio, a riscoprire i
fondamenti, anche razionali, della religione Cattolica, a non cancellare i
riferimenti assiologici che connotano le legislazioni europee e a mettersi alla
ricerca della “V”erità. Il modello che Benedetto offre dall’Austria è Cristo,
che fa della sua forza l’umiltà, la povertà, la carità. Che succederebbe ad un
Occidente che non ripudiasse le sue radici cristiane ma, piuttosto, le
approfondisse, le vivesse…?
Ricordate cosa diceva Giovanni
Paolo II, nell’omelia per l’inizio del Pontificato, il 22 ottobre 1978? Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate
le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli
Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di
civiltà, di sviluppo.
Cristo non si oppone ad un
Occidente forte, è la mollezza di una religione fai da te che, escludendo ogni
parametro valoriale per la valutazione delle scelte umane, mina alla base la
nostra cultura e fa affermare l’Islam che rimprovera le nostre mollezze e ci
invita alla conversione alla religione di Maometto (anche, apprendiamo in
recenti video, per motivi squisitamente fiscali…).