Le tasse giuste sono quelle che non rendono schiavi

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Le tasse giuste sono quelle che non rendono schiavi

Le tasse giuste sono quelle che non rendono schiavi

22 Agosto 2007

Il Cardinal Bertone si è recentemente
guadagnato il plauso di Romano Prodi ribadendo il “dovere” per tutti di pagare
le tasse.
Curiosamente, quanti di solito denunciano con passione le interferenze indebite
delle gerarchie nel dibattito politico, non hanno trovato nulla da ridire, in
questa entrata a gamba tesa. Sembra dunque che la Chiesa sia un attore pubblico
assolutamente legittimato ad esprimere le proprie posizioni, in tema di
politica fiscale, ma non lo sia invece quando si parla, ad esempio, di
eutanasia..

Vittorio Messori ha dato alle parole
del Cardinale un’interpretazione a sangue freddo, sottolineando come il dovere
di pagare giusti tributi non possa prescindere dal senso della misura di chi li
esige. Messori è un cattolico saggio.

Varrebbe la pena ricordarsi, però, che
il Cardinal Bertone non è un filosofo politico né un economista e quindi la
salienza della sua opinione in quest’ambito è davvero relativa. Per grazia di
Dio (è il caso di dirlo), la fede non è una filosofia, né un programma,
politico. Dà o non dà risposte a problemi assai più seri di quale debba essere
l’aliquota marginale dell’imposta sul reddito. Proprio per questo, quando
parlano d’altro le opinioni degli uomini di Chiesa appaiono spesso sciape, se
non addirittura desolatamente banali.

Nondimeno, il dibattito estivo nel
quale il cardinale si è inserito, e che è stato innescato in prima persona dal
presidente del consiglio alcune settimane fa, mostra una grossa ragione
d’interesse: ci porta ad esaminare la “questione fiscale” con gli occhiali
della giustizia, e non con quelli dell’efficienza.

Anche i sostenitori più accesi dei
tagli fiscali tendono ad argomentare in loro favore facendo uso della “curva di
Laffer”: tasse più basse fanno crescere il costo dell’evasione ed abbassano
quello dell’obbedienza, riverberandosi così in più alte entrate fiscali. In
qualche maniera, dunque, tasse alte sono considerate anzitutto come
controproducenti per lo Stato stesso. Imposte più parche farebbero bene
all’erario.

La tesi pare essere penetrata in
profondità nella società italiana, visto il tenore della discussione di questi
giorni. L’argomento per cui un’alta tassazione ci consente di mantenere
l’attuale spesa pubblica è molto impopolare, soprattutto perché la spesa
pubblica in Italia è percepita (correttamente) come inefficiente e corrotta (la
casta). Anziché difendere la spesa – cioè sostenere esplicitamente che dei
quattrini che ci vengono sottratti dal fisco lo Stato fa un uso migliore di quello
che altrimenti noi potremmo fare se ci rimanessero in tasca – allora si torna a
dire che evadere è immorale e ingiusto. Ingiusto, curiosamente, non perché
l’evasore “scrocca” i servizi forniti dallo Stato ma pagati dai contribuenti
“regolari”, sulle cui spalle va a finire anche quella quota di finanziamento
della spesa che lui avrebbe dovuto sostenere. Ma di per sé – per il dovere di
obbedienza che lega il suddito al sovrano.

Per riflettere sulla vera “questione di
giustizia” rappresentata dalla tassazione, vale la pena tornare ad un’utile
parabola di Herbert Spencer, ripresa da Robert Nozick in un passo molto famoso.

Parafrasando Nozick, immaginiamo le
nove scene di questa storia:

(1) C’è uno schiavo, completamente alla
mercé dei voleri del suo padrone. Viene spesso maltrattato, fatto lavorare agli
orari più improbabile, malnutrito.

(2) Il padrone diventa un po’ più
gentile e picchia lo schiavo soltanto quando non rispetta ripetutamente le sue
istruzioni. Comincia a concedergli un po’ di tempo libero.

(3) Il padrone comincia ad avere non
uno ma un gruppo di schiavi, e comincia a dividere un minimo di cose fra di
loro, tenendo conto dei loro bisogni e prendendo atto dei loro meriti e della
loro fatica.

(4) Il padrone consente ai suoi schiavi
di lavorare quattro giorni per sé, e chiede loro di faticare sui suoi
possedimenti solo per tre giorni a settimana. Il resto del tempo è tutto loro.

(5) Il padrone concede ai suoi schiavi
di lasciare la sua casa e di andare a lavorare dove desiderino, per ottenere un
salario. Chiede loro soltanto che gli rendano 3/7 dei loro guadagni. Mantiene
inoltre il potere di richiamarli alla piantagione per delle emergenze, di
proibire loro attività che possano mettere in pericolo il suo ritorno
finanziario sul capitale investito (non possono fare fumare, consumare droghe,
bere stando alla guida, andare in moto senza casco), e di aumentare o diminuire
la quota di reddito che gli preleva.

(6) Il padrone consente a 10.000 suoi
schiavi, cioè tutti eccetto te, di votare, e loro possono decidere assieme qual
è la porzione di reddito (loro e tuo) alla quale rinunciare, e che uso ne viene
fatto.

(7) Nonostante tu non abbia ancora il
diritto di voto, hai il diritto di discutere con gli altri 10.000, per
persuaderli circa l’uso migliore che sia possibile fare delle risorse “comuni”.

(8) Avendo apprezzato il tuo utile
contributo, i 10.000 ti consentono di votare quando vi sia un pareggio nelle
votazione.

(9) I 10.000 accettano che tu voti con
loro. Quando vi sarà una situazione di parità fra gli altri votanti, il tuo
voto sarà decisivo. Altrimenti, no.

Chiede Nozick: quando, nelle nove
scene, questa ha smesso di essere la storia di uno schiavo?

Dal punto di vista della libertà
personale, della libertà fondamentale di disporre dei frutti del proprio
lavoro, non c’è differenza fra la scena cinque e le successive. Comunque lo
schiavo può disporre soltanto di 4/7 del suo reddito. Per Nozick e Spencer, c’è
un filo rosso che lega la tassazione al lavoro forzato: il padrone prende
comunque per sé i frutti della fatica del servo, la differenza è nelle
proporzioni. All’inizio, il padrone è il monopolista del tempo dello schiavo.
Alla fine, limita le proprie pretese. Si potrebbe persino sostenere che è una
strategia oculata, perché verosimilmente chi lavora anche
per sé lo fa con maggior entusiasmo di chi lavori esclusivamente per altri, e
dunque risulta più produttivo. E’ la “curva di Laffer” dello schiavismo.

Ma la questione vera sta nella domanda
di Nozick. Dove finisce la schiavitù e dove comincia la libertà. Alla nona
stazione, grazie al diritto di voto? Alla quarta, perché essere servo tre
giorni a settimana vuol dire essere libero per quattro?<%2Fp>

I problemi di giustizia che gravitano
attorno alla tassazione non possono neanche essere sfiorati, se non si parte da
qui. Come si fa a discutere della “giustizia” della tassazione, ignorandone la
naura? E’ possibile fare affermazioni tanto leggere, come quella per la quale
l’esproprio dei frutti della fatica dei singoli, da parte dello Stato, è
semplicemente “cosa buona e giusta”?

Se lo fosse, non si capirebbe perché il
pensiero politico cerca tanto ostinatamente, da sempre, giustificazioni, buone
ragioni, per l’esistenza del Potere.

Bertone ha qualificato il suo pensiero,
insistendo sull’esigenza che la spesa pubblica privilegi gli svantaggiati.
Questo è un argomento per una tassazione molto forte e “progressiva”. Se un
liberale direbbe che la storiella di Nozick non sarà più una “favola dello
schiavo” quando i 10.001 voteranno una norma costituzionale che limiti il
prelievo e stabilisca che i soldi dell’erario servono esclusivamente per
mantenere l’ordine pubblico e difendersi dai nemici esterni, altri possono
sostenere che siccome la maggioranza dei 10.001 sarà meno dotata, più debole e
bisognosa di tutele rispetto ad una minoranza attiva e produttiva, serve un
sistema fiscale che impedisca che gli esiti nell’avventura della vita della
maggioranza siano pregiudicati da questi handicap naturali.

Qui rientra in gioco la curva di
Laffer. Ma, anche lasciando perdere le giuste osservazioni di coloro che
sottolineano come aliquote basse o addirittura “piatte” siano la migliore
garanzia del fatto che il carico fiscale venga sostenuto soprattutto dai
ricchi, è difficile non constatare come il principio dell’ama il prossimo tuo
come te stesso sia altra cosa. Un conto è appellarsi al buon cuore degli
individui, pensare la solidarietà come un dovere spontaneo al quale ci lega la
comune appartenenza alla famiglia umana, altro è delegarlo a misure messe in
atto coercitivamente.

Torniamo alla favola. Immaginiamo che
la piantagione del padrone consti di due terreni, uno molto fertile, l’altro
praticamente sterile. Talmente sterile che quando egli concede ai servi di
tenere per sé i frutti del proprio lavoro, coloro che arano la terra più brulla
siano condannati a morire di fame. L’unico modo per mantenerli in vita, tenendo
conto anche dei costi amministrativi sostenuti dal padrone per far marciare la
fattoria, è esigere che tutti, in particolar modo coloro che arano il terreno
fertile e fortunato, versino al padrone l’ottanta per cento di quanto
raccolgono. Lui ridistribuirà al raccolto perché non manchi il pane. La
situazione è molto simile a quella iniziale (anche il padrone “totalitario”
manteneva in vita e nutriva i servi), ma è figlia di un obiettivo umanitario:
il padrone non vuole che nessuno muoia di fame.

E’ giusto, pertanto, che coloro che si
spaccano la schiena sulla terra buona non possano godere che del 20% dei frutti
della loro fatica? Basta la nobiltà del fine per cui sono stati derubati, a
renderli meno schiavi?