Leaderismo e desertificazione delle classi dirigenti (di C. Togna)
20 Ottobre 2021
Le elezioni amministrative appena concluse hanno registrato un successo dei candidati del centrosinistra (soprattutto del PD) ed una clamorosa bocciatura dei candidati espressi da Fratelli d’Italia e Lega (per il centrodestra) con un significativo e vittorioso riconoscimento dei candidati (nella Regione Calabria e nella città di Trieste) espressi dalle forze centriste e filogovernative.
Analizzando i dati elettorali, e tralasciando per il momento il fenomeno astensionismo quale alibi per i perdenti, per quanto riguarda il campo del centrodestra risulta evidente che il tentativo della Lega e di Fratelli d’Italia di porsi quale polo attrattore del voto moderato è, nei fatti, fallito. Fallimento reso ancora più evidente dal successo dei candidati espressi dalle forze moderate inferiori nei numeri elettorali ma superiori quanto a qualità di strategia politica.
Tutti i commentatori concordano nel ritenere che se a Milano fosse stato, con convinzione, candidato il dottor Albertini ed a Roma, con convinzione, il dottor Bertolaso la competizione elettorale avrebbe potuto avere un esito diverso. Molto diverso sia in caso di vittoria che in caso di sconfitta. Perché c’è una qualità, purtroppo, anche nella sconfitta.
Il tema d’attualità e di riflessione nel centrodestra è una sorta di “mea culpa” di Lega e Fratelli d’Italia per aver puntato su candidati cosiddetti civici (il “civico ignoto” secondo la sferzante lettura del Senatore Gasparri) anziché su candidati “politici”: senza però la tentazione di scaricare sui poveri candidati il peso della sconfitta. Per una logica di coalizione nel centrodestra la scelta del candidato sindaco a Milano competeva alla Lega e quello di Roma a Fratelli d’Italia. Un’analisi più approfondita richiede di verificare se, all’interno dei due partiti, fossero presenti politici in grado di risultare vincenti ed aggreganti.
Per dirla più chiaramente dove Forza Italia e le forze centriste hanno potuto designare il candidato si è vinto e dove i candidati suggeriti fossero stati designati si sarebbe potuto, secondo il comune sentire, vincere. Dove hanno scelto Lega e Fratelli d’Italia si è perso. E si è perso male.
Ma la scelta del candidato civico quale aspirante sindaco delle due capitali d’Italia, quella legale e quella economica (Roma e Milano), in una con le altre dorsali costituite da Napoli e Torino, è stata il frutto di una strategia politicamente sbagliata e fuori sintonia con i bisogni degli elettori o è altra cosa?
In buona sostanza l’impressione, se non la certezza, è che nei due partiti maggiori del centrodestra tolti i leader (quattro nella Lega: Salvini, Giorgetti, Zaia e Fedriga ed uno per Fratelli d’Italia: Giorgia Meloni) non vi fossero proprio, in factum esse, candidati politici all’altezza della sfida.
Non stiamo parlando qui della qualità dei parlamentari che magari fanno il loro, ed al meglio, nel governo, nel sottogoverno e nelle commissioni: stiamo parlando di classe dirigente politica o di classe dirigente di livello a cui la politica, volendo, possa attingere. Perché l’altro dato è stato l’imbarazzante rifiuto della società civile di qualità industriale, professionale e del sapere che nella quasi totalità dei casi si è defilata all’invito dei due partiti della destra del centrodestra.
E’ come se tutto il mondo produttivo, delle professioni e del sapere universitario si fosse sentito a disagio ad accettare le designazioni di una destra dall’incerto e non definito programma e dall’incerto procedere politico. E tale rifiuto non deriva, essendo stato espresso prima, dalle evidenti strumentalizzazioni sul pericolo neofascista veicolato in forma opportunistica dalla sinistra che non esiste nei fatti, nella società e nella politica. Il rifiuto è probabilmente da ricercare nella consapevolezza della società civile non partitica di rappresentare mondi nei quali la competenza risulta recessiva rispetto all’appartenenza.
Certo il leaderismo esiste da sempre anche a sinistra ma è moderato, quasi geneticamente, sia dall’accusa che ogni leader di sinistra teme (e cioè il culto della personalità) sia dalla necessità di circondarsi di classe dirigente con visioni diverse assecondando il “pluralismo” della scuola di Budapest vincente nei confronti di una visione organicistica e monointerpretativa del marxismo travolta dal fallimento del socialismo reale.
Questi due dati consentono ai partiti di sinistra di avere una classe dirigente politica numerosa e, normalmente, di discreto livello medio in tutte le articolazioni dagli enti territoriali ai corpi intermedi, alle rappresentanze istituzionali. Nei partiti di destra (Lega e Fratelli d’Italia), all’attualità, sembra vincente il modello americano (sia democratico che repubblicano) in cui gli elettori si raccolgono intorno al leader eletto con le primarie in occasione del voto. Ma è un sistema diverso, in una società diversa, con un capitalismo ed un’economia diversi.
Quel modello, forse inconsciamente recepito, porta da noi a formazioni di destra leaderistiche che hanno necessità per mantenere strutturalmente il potere di circondarsi di un ceto politico selezionato sulla base dell’appartenenza e della militanza prima e della competenza se c’è. In una sorta di “neo-feudalesimo” della politica sulla base dell’investitura in forza dell’appartenenza. Un sistema che ha conosciuto il suo momento di crescita (inflazionaria, secondo la lezione di Canetti in “Masse e poteri”) nel momento più forte del vento di protesta che tende, per sua natura, a semplificare la complessità dei problemi per la necessità psicologica ed emotiva di credere che vi siano risposte e ricette semplici a problemi complessi ed interconnessi a livello mondiale.
Ma quando la realtà nella sua crudezza bussa alla porta gli slogan non riempiono certo le pentole né i conti in banca. E forse da qui – e cioè dalla selezione della classe dirigente, nella duplice direzione del reclutamento politico diretto nella scelta dei candidati e del reclutamento indiretto di un colloquio con la parte produttiva e dei saperi della società – bisognerà partire. Con umiltà.
La fiducia “totale, incondizionata e cieca” nei leader è servita, e pure lì con qualche distinguo, negli antichi eserciti per loro natura bisognosi di un capo supremo (il famoso Cesare o Kaiser o Csar). Non può essere certo l’elemento di reclutamento in una politica che voglia rispondere alla complessità delle sfide del mondo occidentale capitalistico post pandemico.
Tale mondo presenta alla politica bisogni dei cittadini diversi e più radicali di quelli “ante pandemia”: ed il successo di una proposta politica, per sua natura, è quella di essere funzionale ed in sintonia con i bisogni dell’elettorato. Ma una politica di risposta ai bisogni (diversificati come è diversificata la composizione sociale del nostro Paese) non può essere affrontata con un “monoteismo ideologico” o più “monoteismi ideologici” magari in competizione tra di loro sulla stessa base elettorale di riferimento. Occorre, probabilmente, una logica inclusiva e federativa che tenga conto e valorizzi, in pari dignità, anche quelle proposte politiche moderate, senza l’arrogante ed esclusiva conta delle percentuali, che possano svolgere il loro ruolo di polo attrattore di istanze che non si riconoscono, pur apprezzandole, integralmente nelle proposte della pura destra.
E forse quello che ha determinato la sconfitta politica del centrodestra è stata proprio la mancanza di “Politica”: e cioè la ricerca di mediazione, la valorizzazione intelligente dell’alleato, la capacità di sintesi generose in luogo di solitari calcoli egoistici. Perché, come da altri già argutamente notato, anche in politica vale la saggezza del Principe De Curtis: è sempre la somma che fa il totale.