L’ecologia della paura e quella del rispetto
06 Giugno 2013
Il 5 giugno è stata la Giornata mondiale per l’ambiente; ad Aprile si era celebrata la giornata mondiale della Terra e il 22 maggio quella della biodiversità. Tanto interesse teorico per quello che ci circonda, cui fa contrappeso un disinteresse pratico… tranne quando siamo con l’acqua alla gola di un inquinamento intollerabile, della spazzatura sparsa per le strade e dei conti di casa che non tornano; allora si risparmia sugli sprechi.
Da dove questo paradosso? Dal fatto che esistono due modi di intendere l’ecologia. Uno nato dalla paura e uno nato dal rispetto. Quello nato dalla paura è quello che vede le risorse personali o globali assottigliarsi e dice “risparmiamo, perché le risorse sono poche!”. Ma sembra pronto a riprendere a spandere e spendere appena la crisi finisce. Quello nato dal rispetto invece dice: “tutto ha un valore e per questo nulla va sprecato!”.
E’ il fraintendimento di chi pensa che per essere ecologisti basti riciclare, mentre l’idea di riciclo va talora a braccetto con l’idea che tanto qualcosa è certamente inutile, che quello che non ci serve vada comunque buttato (poi se se ne riusa una parte è meglio). Invece un ecologismo lungimirante vede che anche ciò che è usato ha ancora un valore e se la società non ha spazio per ciò che è usato è la società che sbaglia, perché nulla deve andare sprecato. L’idea di “spreco” è un concetto postmoderno e utilitaristico: non solo non sappiamo più usare tutto (un tempo non si buttava nulla perché tutto si sapeva riutilizzare o regalare), ma quello che non ci serve è “impuro”. Tanto che il termine sprecare deriva da ex-precare, cioè “maledire”: quello che non ci serve (anche le cose in buone condizioni) lo malediciamo, lo rigettiamo, e va ad ingrossare le discariche.
In fondo odiamo o abbiamo paura di quello che non riusciamo a gestire, e siccome gestiamo solo quello che sappiamo programmare (poveri noi!), tutto il resto scappa dalle nostre mani e diventa deprecabile, sprecabile, proprio perché non ne capiamo più l’uso o la bellezza.
D’altronde l’idea di rifiuto l’abbiamo inventata noi alla metà del secolo scorso: prima nella società che tutto usava i rifiuti non esistevano: il pane secco si dava ai polli o ci si faceva la panzanella, la sedia rotta serviva per il fuoco, il piatto rotto si incollava.
La “società del rifiuto” consuma e scarta, finisce per farlo con le stesse persone, diventando autodistruttiva. Ridurre gli individui utilitaristicamente a consumatori è un problema anche per la medicina, come scriveva Wolfram Henn sul «Journal of Medical Ethics» (2000), o come spiega il «Journal of Intellectual Disabilities» (2012) parlando di un’illusoria utilità del mondo consumista per chi non è “normodotato”. E nella prima era in cui l’uomo produce rifiuti in maniera irresponsabile, è significativo l’allarme di Zygmunt Bauman: accanto a quelli urbani, la società consumistica produce “rifiuti umani”, entrambi assimilati da una presunta inutilità.
Un esempio particolare viene dal Vangelo. Dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, viene dato l’ordine ai discepoli: “"Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto" (Gv 6,12); e certamente non perché ne mancava o si esaurivano le scorte (chi aveva moltiplicato pani e pesci una volta poteva farlo ancora), ma perché si sottolineava che anche il piccolo “deprecabile” residuo ha un valore. E’ da questo breve accenno evangelico che capiamo meglio l’idea ripresa poi da San Paolo che “omnis creatura bona”, cioè che nulla è “sprecabile”, cioè da detestare in quanto tale, neanche quello che apparentemente ha perso un’utilità.
Tutto ha un valore: anche il pane avanzato, o la mela con un’ammaccatura, che invece abbiamo insegnato troppo spesso ai nostri figli a detestare. Serve – piuttosto che una cultura del puro riciclo – una cultura della valorizzazione, del rispetto del creato, cui purtroppo la società risponde con lo spreco… o con l’avarizia che è solo una forma di spreco “rimandato”.
Scegliamo allora quale è il nostro “modo ecologico”: un modo impaurito di guardare alle risorse o un modo carico di rispetto? Il primo non porta da nessuna parte ed è pronto allo spreco appena si riavranno le risorse; il secondo porta a sentirci responsabili del creato. Non è poca cosa in un momento in cui in tempo di crisi si sta riprogettando il modo di intendere la vita nazionale.