L’economia italiana è al palo ma continuare a dirselo serve a poco

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L’economia italiana è al palo ma continuare a dirselo serve a poco

L’economia italiana è al palo ma continuare a dirselo serve a poco

14 Gennaio 2009

Si sente parlare del Botswana una volta all’anno sui giornali italiani, quando l’Heritage Foundation pubblica (in collaborazione con il WSJ ed una serie di think tank, tra cui l’Istituto Bruno Leoni) il grado di libertà economica dei paesi del mondo. E, puntualmente, i giornali annunciano con clamore che l’Italia è messa peggio di questo simpatico stato africano. Appena ieri è stato il Sole 24 Ore a non resistere all’esotico paragone.

Quest’anno, però, confrontare l’Italia con il Botswana è decisamente riduttivo per l’ex colonia britannica, incastonata come i diamanti di cui è ricca tra il Sud Africa, la Namibia e lo Zimbabwe. Chi scrive sa poco del Botswana, tranne ciò che si può leggere nel rapporto redatto dall’Heritage e su Wikipedia. Ma ciò che da queste fonti si apprende, è sufficiente a chiedere alla stampa italiana di non usare più il paese africano come pietra di paragone per la scarsa libertà economica italiana: ormai il Botswana, con cui fino a pochi anni fa rivaleggiavamo, è lontano e in ascesa, 34esimo nella classifica, ben più avanti dell’Italia, 76esima, terzultima nella Ue, 32esima su 43 a livello continentale ed in picchiata libera rispetto alla 64esima posizione del 2008.

Rispetto alla performance del 2008, l’Italia peggiora la sua posizione soprattutto nel già rigido mercato del lavoro, colpevoli le improvvide scelte compiute dal Governo Prodi con il cosiddetto protocollo del Welfare, e per il peggioramento dell’indice che rileva quanto “ingombrante” è lo Stato nell’economia, a causa dell’aumento della spesa pubblica e del goffo processo di privatizzazione di Alitalia. I miglioramenti che la ricerca evidenzia sono ormai quasi esogeni (la libertà monetaria) o di scarsa entità (la libertà di business e la libertà fiscale, aumentata per l’Heritage grazie all’abbassamento dell’aliquota Ires), tanto che il nostro paese scivola inesorabilmente nella classifica.

Basta col Botswana, insomma. I paesi a cui dobbiamo guardare con rinnovato stupore oggi sono altri: i tre che ci precedono – Madagascar, Kirghizistan, Turchia – e i tre che ci incalzano – Capo Verde, Macedonia e Paraguay!

Accantonando suggestioni e toni scherzosi, vale la pena riflettere sui risultati della ricerca. Le storture strutturali sono note e unanimemente riconosciute: l’abnorme livello della spesa pubblica, il dualismo tra Nord e Sud, il debito pubblico superiore al valore del Pil. E ancora, la tassazione asfissiante, la burocrazia bizantina, il mercato del lavoro rigido, la corruzione. In molti di questi ambiti, l’Italia presenta un livello di libertà economica inferiore alla media mondiale, tanto che la stessa ricerca dell’Heritage – tra le righe – pare stupirsi che il Belpaese riesca ancora ad avere una delle maggiori economie del mondo, stanti tutti gli handicap cui l’iniziativa economica è soggetta.

Ciò che il rapporto non rileva è il grado di assuefazione della classe politica e dell’opinione pubblica a dati tanto allarmanti.

Impegnati a riflettere filosoficamente se la crisi economica sia sostanza o accidente e se la recessione sia colpa o meno del mercato, non ci accorgiamo dell’enorme opportunità che abbiamo di fronte. Nelle corse automobilistiche, per una macchina che ha sbagliato il tipo di gomme da utilizzare, l’ingresso in pista della safety car è come manna dal cielo: tutte le vetture vengono rallentate e la sventurata può rientrare ai box, cambiare le gomme e ripartire senza aver perduto terreno rispetto alle avversarie. Andata via la safety car, gareggerà con le altre come non avrebbe potuto prima (in realtà dal 2007 le regole della Formula Uno non lo permettono più, ma il paragone resta efficace, quanto meno per altre categorie).

Per l’Italia, la crisi economica dovrebbe essere l’occasione per cambiar le gomme, verificare l’assetto della macchina statale, compiere gli opportuni sacrifici. Tanto è il gap dell’Italia rispetto ai nostri competitori che non c’è da inventar nulla, se non da porre in essere le riforme che da anni i governi al potere sono incapaci o invogliati a realizzare.

Chi ha la fortuna di poter riportare le proprie idee sui mezzi di informazione ha il compito di combattere il pericolo dell’assuefazione alla illibertà, tanto pericolosa quanto più essa si colora di considerazioni folkloristiche sul Botswana o sull’Albania e la Romania, che pure ci precedono: non avendo gli italiani alcun timore che, al di là di tutto, il nostro paese sia un posto enormemente migliore delle suddette realtà, l’allarme dell’Heritage non provoca loro di più di un levar di ciglio.

Eppure non c’è imprenditore, lavoratore, consumatore e contribuente che non si renda conto di quanto sia reale, più che la crisi economica mondiale, la crisi della libertà economica italiana.

Come mai, allora, permettiamo al Paese di andare alla deriva?

Tra i tanti commenti alla ricerca che ieri si sono uditi, ce n’è uno significativo. Valentina Sanfelice di Bagnoli, presidente dei Giovani di Confapi, afferma: “(…) Occorre lavorare spostando l’attenzione dagli interventi a vantaggio della singola azienda alle misure per la competitività di sistema (…)”. Molti italiani, storicamente, singolarmente o nelle organizzazioni che li rappresentano (sindacati, ordini professionali, categorie imprenditoriali e così via) fanno il contrario di quanto chiede Sanfelice: chiedono interventi ad personam, in virtù di una supposta “specificità” del proprio settore, della propria azienda – in cui lavorano o di cui sono proprietari – o della propria condizione sociale.

Quo usque tandem, Italia, abutere patientia nostra?