Legambiente rilancia i pregiudizi sul nucleare
08 Novembre 2007
Nel
ventesimo anniversario del referendum che sancì l’abbandono dell’atomo da parte
dell’Italia, Legambiente pubblica un rapporto – “I problemi irrisolti del
nucleare a vent’anni dal referendum” – che rilancia con convinzione quella
scelta. Il dossier è senza dubbio ben confezionato e contiene utili spunti di
riflessione. La sensazione, però, è che si tratti di un documento molto
unilaterale, teso ad affermare dei pregiudizi più che affrontare un problema.
Fin dalla prima pagina, infatti, esso si contraddistingue per il tono assertivo
e l’espressione di alcuni giudizi di valore francamente discutibili. Per
esempio, lo studio attacca dicendo che “l’Italia può vantarsi di essere
stato il primo paese industrializzato ad uscire dal nucleare. Solo alla fine
degli anni ’90 verrà seguita dalla Germania con la definizione di una exit
strategy dalla produzione di energia elettrica dall’atomo entro il 2020, e più
recentemente dalla Spagna”. A ben guardare, il nostro paese non ha proprio
nulla di cui vantarsi: ha sostenuto il costo (considerevole) della
realizzazione di quattro impianti e poi li ha chiusi senza trarne alcun
beneficio. Né è vero che Germania e Spagna abbiano imboccato la medesima via:
hanno manifestato l’intenzione più o meno (meno) credibile di sostituire il
nucleare con altre fonti man mano che le centrali esistenti arriveranno a fine
vita, ma nessuno ha mai pensato di smantellarle prima. Allo stesso modo, gli
autori del rapporto – Laura Biffi, Stefano Ciafani, Stefano Generali, Simonetta
Grechi e Lucia Venturi – ironizzano sul fatto che il nucleare contribuisce, a
livello globale, “solo” per il 15 per cento della produzione
elettrica, una quota destinata a scendere al 13 per cento nel 2030. Non
sembrano rendersi conto che il 15 per cento è tantissimo, ma soprattutto non
colgono l’ironia involontaria di chi sostiene le fonti rinnovabili, certo meno
importanti dell’atomo e con meno prospettive, in termini di contributo
assoluto, a causa delle loro irrisolte inefficienza e inaffidabilità.
La parte centrale dello studio riguarda invece i presunti limiti di questa
tecnologia. Da un lato, si afferma che “non esistono le garanzie
necessarie per l’eliminazione del rischio di incidente nucleare e conseguente
contaminazione radioattiva”. Ma tali garanzie non sussistono mai, dacché
il rischio per definizione non può essere eliminato. Esso può semmai essere
ridotto a un livello accettabile. Nel caso dell’atomo, se c’è un’accusa che non
può essere rivolta è proprio questa: vista la complessità degli impianti, le
misure di sicurezza sono tali e tante da consentire una vita tranquilla a chi
abita nei pressi. Lo dimostra, indirettamente, lo stesso dossier di
Legambiente: la lista degli incidenti avvenuti negli ultimi 50 anni è molto
lunga, ma – se si escludono quelli connessi al nucleare militare, che è cosa
affatto diversa dal nucleare civile – si riduce in misura sensibile.
Soprattutto, Legambiente ricorda solo tre incidenti letali: a Leningrado nel
1974-75 (“tre morti accertati”); nell’Oklahoma il 6 gennaio 1986
(“un operaio muore”); e, naturalmente, Chernobyl, che fu un
capolavoro di incuria e inefficienza sovietica. Se è vero che ogni vittima è
una tragedia, è ugualmente vero che il bilancio di sei decenni di nucleare non
è così nero.
Anche sulle scorie e sul decommissioning, Legambiente ciurla nel manico: le
soluzioni tecniche per confinare la radioattività ci sono. Come dimostra la
vicenda di Scanzano Jonico – dove non si riuscì a creare un sito nazionale di
stoccaggio dei residui radioattivi, provenienti sia dalle ex centrali, sia dai
processi ospedalieri – i problemi sono largamente di natura politica. Su un
solo punto il rapporto solleva una questione reale: “il basso costo del
kWh da nucleare è dovuto esclusivamente all’intervento dello Stato nella chiusura
del ciclo del combustibile nucleare e al non tener in conto il problema e i
costi, stranamente considerati esterni, dello smaltimento definitivo delle
scorie e dello smantellamento delle centrali” (andrebbe anche ricordato
che i costi amministrativi fanno lievitare parecchio tempi e costi degli
impianti). In ogni caso, se il problema è economico, spetta al mercato farsene
carico. E’ probabile, per esempio, che alcune caratteristiche dell’energia
atomica – come la stabilità e prevedibilità dei costi, o il suo essere adeguata
a soddisfare il carico elettrico di base – la rendano comunque interessante
all’interno di un portafoglio diversificato e bilanciato di impianti e
tecnologie, per delle utilities che devono competere su un mercato libero.
Comunque, ammesso e non concesso che l’energia nucleare sia più cara di quanto
non riconoscano i suoi sostenitori, non si vede perché da ciò dovrebbe derivare
un orientamento politico ostile all’atomo o addirittura un suo divieto.
La verità è che, conveniente o no, l’unico modo per massimizzare i costi
(compresi quelli ambientali, tuttora irrisolti a causa di una regolamentazione
ottusa) e minimizzare i benefici è quello realizzare centrali e poi chiuderle
immediatamente. Come ha fatto l’Italia compiendo un gesto di cui Legambiente si
vanta.