L’elogio della libertà di Benedetto XVI abbraccia sia religione che politica
06 Gennaio 2011
In virtù di una straordinaria tensione ideale, l’omelia di Natale di Benedetto XVI risuona per il mondo come un autentico “inno alla gioia”, quasi nello spirito del movimento finale della nona sinfonia di Ludwig van Beethoven sul testo di Friedrich von Schiller.
Una risposta alta e forte ai bisogni del nostro tempo e alla sua infinita tristezza. Nel quadro culturale religioso del “sermone festivo”, e malgrado l’inevitabile inflessione teologica, l’accorata esortazione di Benedetto mira a celebrare il Natale cristiano nel cuore del suo più profondo e universale significato umano: la libertà.
Sotto questo essenziale profilo, la potente metafora pagana del 25 dicembre come giorno del “Sole invitto”, richiamata da P. Odifreddi, non ha nulla a che fare con la nostra Storia e la centralità in essa del Cristo, cui “i secoli danzano intorno” (F. Nietzsche). E se l’intervento soprannaturale della grazia, certo, “previene” la libertà, nelle condizioni date è però l’uomo, ogni uomo, a custodire intera la responsabilità della sua libertà, ancorché finita, ogni qualvolta la rivolga agli altri o a se stesso.
Qui, e nelle parole di Benedetto, la libertà interpella l’amore, quale apertura indefinita dell’animo e slancio di medesimezza umana, versione ‘spirituale’ dello “schema di interazione cooperativa e plurale” posto a tema cruciale da J. Rawls, il maggior filosofo politico americano del secolo scorso. Ora, in discorso è la teoria di sfondo della riflessione filosofica, il libero arbitrio, vale a dire l’umana facoltà di scelta tra possibilità differenti, divergenti o anche confliggenti. Classicamente, tra bene e male, o tra gradazioni diverse del bene. Epperò, alquanto sbrigativamente i due termini associati, libertà e arbitrio, troppe volte sono stati identificati, con conseguenze aberranti, se non drammatiche. Una tradizione intellettuale autorevole ritiene che “libero” sia chiunque agisca e scelga, per il solo fatto di agire e di scegliere ed assume in tal modo il valore della libertà come pienamente realizzato, indipendentemente dai mezzi e dal fine cui sono “ordinate” l’azione e la scelta.
Eppure, non oseremmo mai affermare che è “libero” l’arbitrio di chi, ad esempio, nuoce alla vita altrui. Vita di uomini o di popoli: la “tirannia del potere”, ricorda Benedetto. Al contrario, siamo tutti convinti che chiunque ‘arbitrariamente’ (appunto) decida di aggredire beni e valori più o meno elevati,con il negaree sovvertirela libertà degli altri, dà prova sicura ed evidente di illibertà. Di più: perde la sua stessa libertà. Ne discende che, esclusa ogni opzione indisponibile, la libertà verasi coniuga con l’etica della responsabilità, le dà corpo e la integra, in quanto capacità di orientamento positivo, ossia consapevole inserimento nella varietà dei contesti pubblici e privati, non già esercizio di un ‘potere’ astratto e incontrollato o semplice assenza di impedimenti, e neppure “duro lavoro per preparare il prossimo errore” (B. Brecht).
Naturalmente, ciò rileva in modo ancor più decisivo in ambito politico-istituzionale, dove, come papa Benedetto sottolinea, s’impone il dovere tassativo di “pensare al bene comune”. Ma dove è perciò necessario che l’esercizio delle funzioni di governo non subisca, in corso di procedura, ‘interferenze’ da parte di altri poteri dello Stato, in conformità all’irrinunciabile principio democratico della “separazione”. Di talché esso possa estrinsecarsi secondo il canone della “libertà del governo”, ed essere valutato nei suoi esiti precisi di libertà o arbitrio. Certamente, è ragionevole e giusto (è persino banale ricordarlo) che anche le più alte responsabilità istituzionali vengano ‘legalmente’ giudicate, al pari della posizione di qualsiasi cittadino. Però, prima e/o dopo il mandato costituzionale ricevuto, ‘durante’ sembra davvero inopportuno.
Analogamente che per la “Libertas Ecclesiae” e la libertà religiosa in generale, anche per la responsabilità di governo ciò appare indispensabile allo (unico) scopo di rendere possibile la cura prioritaria e diretta del pubblico bene, consentendoa una comunità di valutanti la formazione serena e motivata del giudizio a esperienza conclusa.