Lettera Enciclica “Spe Salvi”
30 Novembre 2007
di redazione
LETTERA ENCICLICA
SPE SALVI
DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XVI
AI VESCOVI
AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE
E A TUTTI I FEDELI LAICI
SULLA SPERANZA CRISTIANA
Introduzione
1. « SPE SALVI facti sumus » – nella speranza siamo stati salvati, dice san Paolo ai Romani e anche a noi (Rm 8,24).
La « redenzione », la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un
semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è
stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale
noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un
presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una
meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è
così grande da giustificare la fatica del cammino. Ora, si impone
immediatamente la domanda: ma di che genere è mai questa speranza per
poter giustificare l’affermazione secondo cui a partire da essa, e
semplicemente perché essa c’è, noi siamo redenti? E di quale tipo di
certezza si tratta?
La fede è speranza
2.
Prima di dedicarci a queste nostre domande, oggi particolarmente
sentite, dobbiamo ascoltare ancora un po’ più attentamente la
testimonianza della Bibbia sulla speranza. « Speranza », di fatto, è
una parola centrale della fede biblica – al punto che in diversi passi
le parole « fede » e « speranza » sembrano interscambiabili. Così la Lettera agli Ebrei lega strettamente alla « pienezza della fede » (10,22) la « immutabile professione della speranza » (10,23). Anche quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos
– il senso e la ragione – della loro speranza (cfr 3,15), « speranza »
è l’equivalente di « fede ». Quanto sia stato determinante per la
consapevolezza dei primi cristiani l’aver ricevuto in dono una speranza
affidabile, si manifesta anche là dove viene messa a confronto
l’esistenza cristiana con la vita prima della fede o con la situazione
dei seguaci di altre religioni. Paolo ricorda agli Efesini come, prima
del loro incontro con Cristo, fossero « senza speranza e senza Dio nel
mondo » (Ef 2,12). Naturalmente egli sa che essi avevano avuto
degli dèi, che avevano avuto una religione, ma i loro dèi si erano
rivelati discutibili e dai loro miti contraddittori non emanava alcuna
speranza. Nonostante gli dèi, essi erano « senza Dio » e
conseguentemente si trovavano in un mondo buio, davanti a un futuro
oscuro. « In nihil ab nihilo quam cito recidimus » (Nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo) [1]
dice un epitaffio di quell’epoca – parole nelle quali appare senza
mezzi termini ciò a cui Paolo accenna. Nello stesso senso egli dice ai
Tessalonicesi: Voi non dovete « affliggervi come gli altri che non
hanno speranza » (1 Ts 4,13). Anche qui compare come elemento
distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che
sappiano nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell’insieme che
la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come
realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. Così possiamo ora
dire: il cristianesimo non era soltanto una « buona notizia » – una
comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. Nel nostro
linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo «
informativo », ma « performativo ». Ciò significa: il Vangelo non è
soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una
comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del
tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive
diversamente; gli è stata donata una vita nuova.
3.
Ora, però, si impone la domanda: in che cosa consiste questa speranza
che, come speranza, è « redenzione