L’Europa approva il pacchetto clima e dà prova di concretezza
13 Dicembre 2008
Europa forza tre. Di fronte ai tre complessi dossier riguardanti pacchetto clima, crisi economica e ripartenza istituzionale, il Consiglio europeo di Bruxelles ha trovato soluzioni condivise e di alto profilo. Parafrasando il presidente di turno uscente Sarkozy si può dunque affermare che “in Europa c’è del nuovo, si parla meno e si agisce di più?”. Ebbene se si guarda agli esiti della due giorni di colloqui da un punto di vista contingente è difficile dare torto a Sarkozy.
Il pacchetto clima, il cosiddetto “20-20-20” è stato approvato all’unanimità. Italia e Germania, con un mix di buonsenso e di sano realismo, hanno permesso che si mantenesse la sua parte migliore (un chiaro segnale a tutto il mondo verso la “terza rivoluzione industriale”) e contemporaneamente non si penalizzassero settori cruciali dell’industria continentale e i Paesi di recente ingresso nell’Ue, impegnati in complicati percorsi di adattamento dei loro comparti industriali ed energetici.
Sul piano anticrisi è giunto il via libera, anche tedesco, sui 200 miliardi di euro, pari “circa all’1,5% del Pil Ue”, da destinare al rilancio dei 27 così in difficoltà in quella che è oramai una fase di piena recessione.
Infine sull’ennesimo blocco istituzionale dovuto al “no” irlandese dello scorso giugno, la presidenza di turno francese ha colto il terzo successo. Il primo ministro di Dublino Cowen ha annunciato un nuovo referendum entro il 31 ottobre 2009 e di conseguenza, dando per scontato (?) un esito positivo, il Trattato di Lisbona dovrebbe riuscire ad entrare in vigore entro la fine del 2009. Accanto alla nuova Commissione e al nuovo Parlamento di Strasburgo, l’Unione dovrebbe finalmente avere un Presidente fisso e un vero responsabile della sua politica estera.
Dunque via le nubi all’orizzonte e passaggio di consegne morbido tra Parigi e Praga, che assumerà la presidenza dal 1 gennaio 2009 senza aver ancora, bisogna ricordarlo, ratificato il Trattato di Lisbona? Se dal contingente si passa ad una visione di medio periodo, senza nulla togliere alla volontarista ed innovativa presidenza di turno francese, qualche interrogativo di più è però lecito porselo.
Prima di tutto la questione clima. Il pacchetto è senza dubbio rivoluzionario ed è sterile criticare le deroghe ottenute da Italia, Germania e Polonia. Nel bel mezzo dell’attuale crisi economica non si poteva fare di più e con il “progetto 2020” l’Unione assume la leadership mondiale nella lotta al riscaldamento terrestre senza lasciarsi andare ad un’ideologia ambientalista di stampo terzomondista e anti-industrialista. Si deve però ricordare che Bruxelles si trova ora a metà del guado. La seconda parte della “rivoluzione verde” si potrà valutare dopo il summit di Copenaghen del 2009. L’Ue avrà la forza di imporre la sua visione al resto del mondo? E non solo e non tanto agli Usa, ma soprattutto ai Paesi in via di sviluppo, Cina in testa. Nel braccio di ferro di fine 2009 si scoprirà se la leadership sui temi ambientali è davvero salda o è un coacervo di slogan di facciata.
Secondo punto critico, quello relativo alle ricette anticrisi economica. Il piano da 200 miliardi è stato confermato, ma il concreto utilizzo di questi fondi resta vago e l’approccio fondato sui singoli piani nazionali non è uscito scalfito dalla due giorni di Bruxelles. Si è dunque ottenuto un vago coordinamento e non di certo un embrione di “governo economico” dell’Unione. Ci si è molto concentrati sulle cifre e troppo poco sul metodo. Lo scontro per nulla velato tra il punto di vista tedesco, primato alla stabilità, e quello anglo-francese, deficit spending, non è stato sciolto. Il carattere disconnesso dei singoli piani nazionali non è stato affrontato. E infine poco o nulla si è detto sui rischi di medio lungo-periodo insiti negli aiuti di Stato a pioggia attesi per i principali settori industriali (la Svezia ha già stanziato i primi per il suo comparto auto). Lasciare agire senza un controllo vero gli Stati nazionali potrebbe condurre a pericolose forme di concorrenza falsata e ad un’escalation incontrollata degli aiuti di Stato. In questo caso si tratterebbe di un indubbio passo indietro rispetto al processo di liberalizzazione del mercato interno, vero tratto distintivo della storia comunitaria.
Veniamo infine al complesso e multiforme discorso istituzionale. Bisognerà innanzitutto valutare con maggiore ponderazione gli effetti del semestre di presidenza francese. Si tratta senza dubbio di sei mesi “storici” per l’attivismo, il pragmatismo e la visibilità di Nicolas Sarkozy in situazioni in larga parte impreviste (“no” irlandese, guerra del Caucaso e crisi economica). È lecito però domandarsi cosa resterà di questa intensa parentesi e se appunto solo di una parentesi si tratta. Certamente l’Europa di Sarkozy è stata un’Europa intergovernativa: la presidenza del Consiglio europeo è stata al centro di ogni intervento, mentre la Commissione ne è uscita ulteriormente indebolita. Ecco allora che i sei mesi di presidenza di Parigi dovranno servire per aprire una riflessione decisiva su quale Unione si potrà e si vorrà costruire nei prossimi anni. L’Europa di Bruxelles e delle istituzioni comunitarie o l’Europa del volontarismo dei singoli leaders nazionali? Una parziale risposta si potrà ottenere dopo il voto referendario irlandese. Se anche Repubblica Ceca (per via parlamentare) e Irlanda (con il nuovo referendum) chiuderanno il discorso Trattato di Lisbona, diventeranno decisive le scelte del Presidente fisso e del responsabile della politica estera.
“Il mondo ha bisogno dell’Europa” ha affermato Sarkozy alla fine del vertice di Bruxelles. Ha poi aggiunto “ma di un’Europa che tenga la testa alta e sappia prendersi dei rischi”. La via è stata indicata, il cammino è in gran parte ancora da percorrere.