L’Europa di Benedetto, Assisi e Norcia

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L’Europa di Benedetto, Assisi e Norcia

L’Europa di Benedetto, Assisi e Norcia

06 Ottobre 2006

di Vera Capperucci e Daniele Federici

Come da tradizione, anche quest’anno il consueto appuntamento
promosso dalla Comunità di Sant’Egidio nella cittadina umbra di Assisi,
non ha mancato di sollevare interesse e dibattito. Il tema di fondo del
confronto, che ha costituito uno dei tre eventi organizzati in ricordo
del XX anniversario dell’incontro interreligioso di preghiera per la
pace, voluto da Giovanni Paolo II il 27 ottobre 1986, è stato racchiuso
nella formula «Per un mondo di pace. Religioni e culture in dialogo».

 

Sedici le tavole rotonde previste nel corso delle due giornate di
lavori, oltre duecento i leader presenti in rappresentanza delle
diverse religioni, numerose le personalità della cultura e delle
istituzioni. Benedetto XVI, nel messaggio augurale inviato alla vigilia dell’apertura dell’incontro a mons. Domenico Sorrentino,
vescovo della diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino, ha
ripercorso le fasi che portarono il suo predecessore ad indicare, in un
incontro comune di tutte le religioni, l’occasione per superare e
fronteggiare la tensione internazionale che dalla metà degli anni
ottanta tendeva ad accrescere la distanza tra blocco occidentale e
blocco sovietico.

Alla luce del nuovo risveglio della violenza
religiosa l’intuizione di Giovanni Paolo II fu dunque “profetica”, ma
deve essere liberata, sottolinea il papa, dalle interpretazioni
sincretistiche, fondate su una concezione relativistica della verità
religiosa. Il pontefice ritorna così su quella concezione di dialogo
già più volte affermata. Se la religione non può che essere foriera di
pace, in tutte le sue manifestazioni, e se a nessuno è lecito assumere
il motivo della differenza religiosa come presupposto o pretesto per un
«atteggiamento bellicoso verso gli altri esseri umani», non bisogna
però cedere alla tentazione di annullare le diversità, che esistono e
che contribuiscono a definire il percorso storico e culturale di
ciascuna fede. Non è infatti sulla negazione delle diversità che si
costruiscono il dialogo e la pace. Quest’ultima è, in primo luogo, uno
stato che va cercato e custodito nel cuore di ciascuno, sviluppato poi
nella dimensione orizzontale, nel rapporto con gli altri uomini, e
alimentato nella sue dimensione verticale, nella relazione con Dio. Da
questa ricerca scaturisce poi una precisa indicazione, che Benedetto
XVI spiega riportando le stesse parole pronunciate da Giovanni Paolo II
in occasione del primo incontro di Assisi: «Il fatto che noi siamo
venuti qui non implica alcuna intenzione di ricercare un consenso
religioso tra noi o di negoziare le nostre convinzioni di fede. Né
significa che le religioni possono riconciliarsi sul piano di un comune
impegno in un progetto terreno che le sorpasserebbe tutte. E neppure è
una concessione al relativismo nelle credenze religiose». Nel dialogo,
dunque, la scelta, auspicata anche nei testi conciliari, è di evitare
che la convergenza dei diversi dia «l’impressione di un cedimento a
quel relativismo che nega il senso stesso della verità e la possibilità
di attingerla».

Nonostante la lettera del papa il
convegno multireligioso di Assisi, per la mancanza di forti richiami
alle differenze culturali-religiose, e anche per la presentazione che
ne hanno fatto i mass-media, sembra avere favorito nella coscienza
delle persone una concezione di dialogo che muove verso quegli approdi
contro i quali Benedetto XVI, alla vigilia, aveva lanciato l’allarme.
Riccardi, fondatore della Comunità di sant’Egidio, nella cerimonia
finale, ha tirato le somme dell’incontro: «Le religioni hanno
affratellato popoli diversi. Possono continuare a farlo e a farlo su
più ampi scenari, con braccia più larghe. Oggi la pace ha bisogno che
si impari a vivere insieme tra gente diversa. Ovunque c’è questa sfida:
o vivere insieme nel rispetto della libertà altrui, oppure scivolare,
attraverso una cultura del conflitto, in veri e propri scontri. Tanti,
troppi, giocano d’azzardo sulle differenze…». Il confine tra le due
posizioni è certamente labile e ricco di sfumature. Meno sfumata è
apparsa, tuttavia, la direzione verso cui è soffiato “lo spirito di
Assisi”.

Dal
9 al 13 settembre si è svolto il viaggio in Baviera di Benedetto XVI,
occasione per il pontefice di rivolgere, in interventi dal profondo
contenuto teologico e culturale, un grande richiamo al mondo
occidentale.
Nella Lectio magistralis svolta martedì 13 settembre all’università di Regensburg
davanti ai rappresentanti del mondo della cultura, il papa in un
discorso nello stesso tempo chiaro e profondo ha presentato la storia
culturale del mondo occidentale secondo la prospettiva del rapporto fra
fede e ragione. L’avvicinamento fra religione ed esigenze della ragione
iniziato nel mondo ebraico trova il suo compimento nell’incontro fra
cristianesimo e cultura greca: «l’incontro tra il messaggio biblico e
il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di S.Paolo,
davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide
un Macedone e sentì la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci (At.
16, 6-10), questa visione può essere interpretata come una
“condensazione” della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la
fede biblica e l’interrogarsi greco». Questa sintesi entra a
determinare il contenuto della stessa fede cristiana; i testi canonici
dei vangeli sono in lingua greca, il Vangelo di S. Giovanni inizia con
le parole: «in principio era il λόγος», categorie filosofiche greche
sono la base dell’espressione dogmatica della chiesa sul mistero di
Cristo. La stessa formazione culturale dell’Europa si fonda
sull’incontro fra spirito cristiano e greco, cui si è aggiunto il
patrimonio di Roma. Nel tardo medioevo inizia invece il processo di
rottura fra fede e ragione con l’esclusione di ogni principio di
razionalità dall’idea di Dio e l’affermazione della sua assoluta
trascendenza. L’origine di questo scivolamento è identificato da
Benedetto XVI nel pensiero di Duns Scoto; altre tappe del tentativo di
deelenizzazione del cristianesimo sono la riforma protestante del XVI
secolo, con il postulato della sola Scriptura, e la teologia
liberale del XIX e del XX secolo. La frattura fra fede e ragione genera
le «patologie minacciose della religione e della ragione»; in
particolare il compito della cultura occidentale è superare la
concezione moderna di ragione positivista, che nasce da «una sintesi
tra platonismo (cartesianesimo) ed empirismo, che il successo tecnico
ha confermato», e nega la stessa grandezza della ragione e i suoi
interrogativi fondamentali che aprono al trascendente. Secondo il papa
solo in questa ritrovata armonia fra fede e ragione si può costruire un
vero dialogo fra le religioni e culture.

Il discorso di
Regensburg è dunque un invito rivolto al mondo della cultura europea
affinché riscoprira l’unione di fede e ragione, che si realizza
pienamente nel cristianesimo. L’insistenza sulla specificità della fede
cristiana è emersa nella messa in luce della differenza fra la
concezione del Dio cristiano e quella presente nel Corano. Benedetto
XVI, riprendendo il noto islamista francese R. Arnaldez, sottolinea la
tendenza della dottrina islamica a valorizzare gli aspetti di assoluta
trascendenza di Dio, che rischia di rimanere estraneo ad ogni categoria
umana. Da qui l’irragionevole e disumana volontà di voler diffondere la
fede con la spada e la violenza della guerra santa; tema affrontato dal
Papa partendo dalla ormai famosa citazione dell’imperatore Manuele II
Paleologo.
Anche il concetto di ellenizzazione come dato
permanente all’interno delle verità della fede cristiana indica un
elemento peculiare della credo fondato sull’incarnazione; la storia di
Gesù e della chiesa dei primi secoli entra a definire e determinare i
contenuti stessi della fede appunto perchè il Dio cristiano non è
assolutamente trascendente, ma λόγος che si è fatto carne
coinvolgendosi così con la storia degli uomini e legando ad essa la sua
rivelazione.

L’ampio
percorso tratteggiato da Benedetto XVI, pur riprendendo molti temi non
nuovi all’insegnamento universitario di Ratzinger, offre uno dei
discorsi più significativi del suo magistero papale; l’insistenza sulla
concezione di Dio come λόγος può fare considerare la lezione come una
sorta di completamento della sua prima enciclica Deus caritas est.
Molti commentatori hanno comunque osservato che il papa a Regensburg
avrebbe parlato da professore e non come pastore. In verità il discorso
è una descrizione della specificità della fede cristiana e della sua
concezione di Dio, insieme all’analisi culturale e storica dei motivi
della sua crisi; le implicazioni intellettuali sono decisive ma si
tratta dello stesso annuncio cristiano che ha caratterizzato tutto il
viaggio in Baviera, seppure presentato a professori all’interno di
un’aula universitaria. Un annuncio che genera odio e diffidenza come
hanno mostrato le violente proteste dei paesi arabi e la solitudine, in
cui i paesi occidentali e le istituzioni europee hanno lasciato il papa.

Come già detto la riproposizione semplice e chiara dei contenuti della
fede e l’invito alla missione hanno dominato tutti i momenti della
visita in Germania. Soffermiamoci solo su due esempi.
Nell’omelia
domenicale del 9 settembre sulla spianata della nuova fiera di Monaco
Benedetto XVI ha criticato il secolarismo dell’occidente, descritto
come una vera e propria incapacità di avere un dialogo con Dio, «una
debolezza d’udito nei confronti di Dio di cui soffriamo specialmente in
questo nostro tempo», che riduce l’orizzonte della nostra vita con una
concezione di ragione che esclude Dio e genera spavento e reazione
nelle popolazioni ancora religiose per il suo cinismo e disprezzo del
sacro. A queste considerazioni si è accompagnata l’affermazione che
l’uomo ha bisogno del Dio cristiano, un Dio che compie la sua vendetta
attraverso la croce, e l’invito all’evangelizzazione, «che deve avere
la precedenza» sui progetti sociali, come spesso invece non avviene
anche fra i cattolici. Significativo l’appunto alla chiesa tedesca:
«ogni tanto, però, qualche vescovo africano mi dice: “Se presento in
Germania progetti sociali, trovo subito le porte aperte. Ma se vengo
con un progetto di evangelizzazione, incontro piuttosto riserve”».
Ricordiamo ancora per la sua chiarezza il discorso tenuto a Ratisbona
nel corso della celebrazione ecumenica dei vespri nel duomo della
città. Davanti ai rappresentanti di varie chiese e comunità della
Baviera, della chiesa luterana e ortodossa e ai membri della
commissione ecumenica della conferenza episcopale tedesca, il papa ha
sottolineato, di fronte alla coscienza moderna che dimentica la realtà
del peccato e il bisogno di essere salvati, l’importanza del tema della
giustificazione e del perdono, e indicato la testimonianza di Cristo,
salvezza dell’uomo, come compito principale del cristiano e condizione
dell’incontro e del dialogo: «Chi è Dio, lo sappiamo da Gesù Cristo:
dall’unico che è Dio. È mediante Lui che veniamo in contatto con Dio.
Nell’epoca degli incontri multireligiosi siamo facilmente tentati di
attenuare un po’ questa confessione centrale o addirittura di
nasconderla. Ma con ciò non rendiamo un servizio all’incontro, nè al
dialogo. Con ciò rendiamo soltanto Dio meno accessibile, per gli altri
e per noi stessi.»

Verso
la fine del mese, il 23 e 24 settembre, si è invece tenuta a Norcia la
seconda edizione degli incontri dedicati al confronto tra laici e
credenti organizzati dalla Fondazione Magna Carta in collaborazione,
per la prima volta, con la Fondazione Internazionale Giovanni Paolo II
per il Magistero della Chiesa e la Fondazione Sublacense Vita e
Famiglia. Il tema centrale degli interventi di apertura dei lavori,
affidati all’arcivescovo metropolita di Bologna Carlo Caffarra e all’ex
presidente del senato Marcello Pera, era la definizione del rapporto
tra religione e spazio pubblico di fronte alle sfide della
contemporaneità. Dopo una breve premessa, finalizzata a circoscrivere
l’ambito di riferimento del concetto di sfera pubblica, il cardinale Caffarra
si è soffermato sulla particolare «vocazione» della fede cristiana a
sviluppare i valori civili che la storia degli ultimi due secoli
dell’Occidente ha trasmesso in eredità, operando al contempo una
selezione tra l‘alternativa della privatizzazione secolarista e del
fondamentalismo integralista. Nella ricerca di questa «terza via» si
realizza l’incontro tra le due dimensioni di cui la persona umana è
composta, la fede e lo spazio pubblico, in una prospettiva che recupera
l’apporto positivo della ragione alla realizzazione della felicità
dell’uomo e toglie la religione dal campo dell’irrazionalità dove è
stata relegata. Caffarra individua in questo passaggio il momento più
delicato della sua argomentazione: la questione, cioè, della
«qualificazione etica» della sfera pubblica e, di conseguenza, le forma
di interazione con la fede cristiana. Il punto di partenza della sua
spiegazione è la negazione di ogni, presunta, neutralità etica della
sfera pubblica, pena l’accettazione di una società «di anonimi, di
individui astrattamente concepiti e sradicati dalla loro appartenenza
identitaria». La sfera pubblica, dunque, proprio perché destinata alla
realizzazione dell’inclinazione sociale dell’uomo, e «fatta» dall’uomo,
non può essere affidata alla sola razionalità tecnica. Il fatto che al
suo interno operi un soggetto, l’essere umano appunto, che ad essa
pre-esiste la pone in relazione con «l’indisponibilità dell’humanus».
Indisponibilità che poi il cardinale declina nelle sue principali
espressioni: etica e giuridica, biologica, esistenziale. Da questa%0D
premessa si ricava che la qualificazione etica della sfera pubblica, se
privata della sua radice culturale giudaico-cristiana, non può avere
vita lunga. La fede educa, infatti, l’uomo ad una percezione profonda
del valore e della verità della persona umana, creando così un
diaframma rispetto ai rischi del secolarismo o le pretese delle
dittature, e le deriva fondamentaliste. L’esperienza cristiana in
questo senso arricchisce e dona significato alla sfera pubblica,
ripristinando, e anzi favorendo, la compatibilità tra religione e
politica: «La laicità dello stato oggi non può significare indifferenza
della politica verso la religione e della religione verso la politica.
È necessario che la religione possa, mediante le forme di vita che essa
genera, qualificare eticamente la sfera pubblica».

Anche
il discorso di Marcello Pera ha preso le mosse da due considerazioni
preliminari: la prima volta ad individuare nei temi bioetici, nel
fondamentalismo islamico e nella integrazione degli immigrati le
ragioni dell’attualità della discussione sulla relazione
religione-spazio pubblico; la seconda a riconsiderare alcune categorie
interpretative del rapporto stato-chiesa ormai datate e, dunque,
inadeguate a fornire spiegazioni esaustive. L’ex-presidente del senato
passa poi ad esaminare i tre punti in cui il tema in esame deve essere
articolato. In primo luogo occorre chiedersi se la religione abbia un ruolo nella vita pubblica, debba o meno
svolgere questo ruolo. Quanti negano questo «diritto» adducono in
sostanza tre motivazioni da cui derivano altrettanti tipi di ostacoli.
La prima tesi è quella che Pera definisce laicista la quale genera l’ostacolo laico:
in sintesi s sostiene che la stessa natura laica dello stato impedisca
l’intromissione. Un buon esempio di questa motivazione si ricava dalla
interpretazione del famoso «rapporto Stasi»: la religione, si sostiene,
non deve esercitare alcun ruolo nella vita pubblica perché ciò
violerebbe il principio di laicità. Ma il rischio, sottolinea Pera è
che questo tipo di ragionamento induca a far sì che la stessa laicità
finisca per configurarsi come un credo religioso che ne impedisce un
altro in nome di un dogma giacobino. La seconda tesi è quella della libertà da cui deriva l’ostacolo della libertà.
In questo caso l’impedimento al ruolo della religione sarebbe
costituito dalla condizione privilegiata riconosciuta ai credenti e
dalla conseguente aperta violazione del principio della giustizia
politica. L’ultima critica si riassume nella tesi democratica da cui deriva l’ostacolo democratico
che riconduce la negazione al rischio della mancanza di tutela dei
diritti delle minoranze. Dalle ragioni dei critici Pera ricava la
risposta alla prima domanda: in primo luogo non esistono argomenti
cogenti contro la presenza della religione nella sfera pubblica; in
secondo luogo questa presenza non implica la negazione o la mancata
accettazione della laicità dello stato; in terzo luogo non mette in
discussione la separazione delle due sfere. A questo punto è possibile
passare alle altre due questioni, accennate in apertura: in quale sfera
pubblica la religione può intervenire e attraverso quali modalità.
Richiamando il tema dell’impossibile neutralità già ricordata da
Caffarra, Pera ritiene che l’ambito di riferimento dell’azione della
religione debba riguardare tutta la sfera pubblica allargata perché la
religione, e viene alla terza questione, contribuisce a rafforzare i
fondamenti dello stato e costituisce un nutrimento dei contenuti della
vita pubblica. Poiché, tuttavia, è possibile che questa integrazione
possa innescare processi perversi, fino a generare le attuali forme di
fondamentalismo, è opportuno introdurre alcune differenziazioni.
L’ex-presidente del senato torna così sui temi che in più occasione,
durante gli ultimi anni, ha avuto modo di approfondire: la questione
della pericolosità della minaccia fondamentalista e l’urgenza di farvi
fronte attraverso un recupero di una identità in cui i valori della
religione cristiana costituiscono il terreno di una appartenenza
identitaria comune. Solo recuperando il «senso di sé» l’occidente può
sconfiggere la paura e la perdita delle difese, solo credendo in questa
identità, affermandola e sostenendola è possibile vincere lo scontro in
atto. Diversamente la battaglia è persa già in partenza: «Noi siamo
figli del cristianesimo. Se lo respingiamo non siamo più figli di
nessuno».

Il grande storico della chiesa Joseph Lortz nel suo breve opuscolo Wie kam es zur Reformation sottolineava
il ruolo decisivo della Germania nella storia europea. Dopo avere
ripreso la tesi germanistica sull’origine del medioevo, notava infatti
come la rottura della cristianità era stata generata dall’affermarsi
del protestantesimo e vedeva ancora nella Germania divisa dopo la
guerra mondiale un segno della crisi del vecchio continente. Sembra che
Benedetto XVI con il suo magistero durante il viaggio nella sua patria
abbia voluto indicare la strada di una possibile rinascita europea
proprio partendo dalla terra tedesca. La via suggerita appare nello
stesso tempo semplice e complessa. Si tratta di riscoprire infatti la
fede in Gesù Cristo, che sola può aprire il cuore dell’uomo
all’esperienza del trascendente e generare un’idea di verità che
concilii fede e ragione; il costante richiamo al tema della verità e ad
una giusta concezione di ragione sono finalizzati ad una nuova
evangelizzazione dell’occidente Agli occhi del papa, uomo di fede,
questa è la sola via per superare da una parte il sincretismo religioso
e dall’altra il relativismo e il secolarismo, mali che caratterizzano
la nostra epoca. In questo senso il magistero di Benedetto nel suo
viaggio in Baviera rimanda con forza per il suo contenuto ai due
convegni del mese di settembre. Con la sua negazione del sincretismo e
la forte ripresa del concetto di ragione e verità pone le basi per un
vero dialogo interreligioso e corregge le errate interpretazioni del
convegno di Assisi; con il richiamo al cristianesimo come ambito
culturale-religioso in cui è possibile la sintesi di ragione e fede, e
quindi un ruolo pubblico della religione, presenta il fondamento delle
tematiche affrontate a Norcia.