L’Europa di fronte alla crisi finanziaria prova a salvare la faccia

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L’Europa di fronte alla crisi finanziaria prova a salvare la faccia

03 Ottobre 2008

L’Europa, che in Georgia ha salvato la faccia grazie all’attivismo di Sarkozy, riuscirà a fare altrettanto di fronte alla bufera finanziaria internazionale? In vista del vertice tra i quattro membri europei del G8, il Presidente della Commissione Barroso, quello dell’Ecofin Juncker e il numero uno della Bce Trichet previsto a Parigi per sabato prossimo, è lecito porsi questa domanda, ma soprattutto soffermarsi su alcune possibili ricadute politiche che la crisi attuale sembra avere nel funzionamento istituzionale dell’Unione europea. Senza entrare in tecnicismi economici, materia per economisti esperti, le risposte (o l’assenza di risposte) di Bruxelles, della presidenza di turno francese e delle principali capitali europee aiutano a trarre alcune, seppur parziali, conclusioni.

Prima di tutto l’Unione europea in questa crisi finanziaria ha mostrato tutta la sua lentezza operativa e la sua vischiosità decisionale, ancora maggiore se confrontata alla risolutezza americana (anche se in questo caso sono pesantissimi i condizionamenti dovuti alla fase elettorale). È certamente vero, come ha ricordato Barroso, che la Commissione si è spesa con una certa rapidità per inserire norme precise per il controllo delle banche transfrontaliere e per proporre nuovi sistemi di regolamentazione per le agenzie di rating del credito. Laconica e senza vie d’uscita è stata però la sua conclusione: «queste proposte saranno tanto più rapide quanto più rapida sarà la loro adozione da parte degli Stati membri e del Parlamento europeo». Se già la Commissione è fortemente divisa al suo interno tra liberisti ed interventisti, come è possibile pretendere che, con le attuali regole istituzionali, siano gli Stati membri o i parlamentari di Strasburgo a trovare il bandolo della matassa?

In secondo luogo, se guardata dall’ottica europea, la crisi in atto mette in serio pericolo quelli che, perlomeno nella visione degli euro-entusiasti, dovrebbero essere i veri successi dell’Ue negli ultimi 25 anni. Tenuta del mercato unico, regime di concorrenza, stabilità e credibilità internazionale della moneta unica. L’entità e il peso della risposta europea alla crisi determineranno il futuro dell’Europa economica sorta dopo Maastricht.

Terzo punto, probabilmente quello decisivo in un approccio politico alla crisi. L’Unione europea è oramai dominata dal metodo intergovernativo e non si vedono alternative all’orizzonte. Lo si era percepito in maniera lampante nella crisi georgiana, con i capi delle istituzioni comunitarie a svolgere un ruolo di contorno e lo si coglie in maniera ancor più netta oggi. L’idea di un piano Paulson all’europea giunta dall’Eliseo (pare suggerita dal premier olandese Balkenende), è stata immediatamente attaccata e smentita da Merkel così come da Brown, ma non in nome di un più corretto «galateo istituzionale europeo». Il Cancelliere tedesco e il Primo ministro inglese hanno guardato innanzitutto al proprio interesse nazionale. Si scopre così facilmente che il debole Brown si trova a dover affrontare l’accerchiamento dell’opinione pubblica inglese dopo che a Dublino si è deciso, senza pensare alla possibilità di un coordinamento europeo, di assicurare per due anni a spese dello Stato il credito bancario dei sei maggiori istituti. È altrettanto semplice scoprire che la Merkel, salvatrice dell’Europa nel 2005 (quando spezzò con risolutezza l’impasse sul bilancio 2007-2013) e di nuovo nel corso del semestre tedesco di presidenza nel 2007, oggi rifiuta il piano europeo essenzialmente perché dovrebbe giustificare di fronte al suo elettorato nuovi aiuti alle banche (dopo quelli che ha già distribuito a pioggia). E ancor di più perché le elezioni si avvicinano e la battuta d’arresto della Csu in Baviera, la scorsa settimana, ha avuto molto a che fare con il salvataggio di un grosso istituto bancario da parte dell’esecutivo del Land.

Ma se si gratta sotto la patina dell’idealismo e del volontarismo sarkozista, si scopre facilmente che anche le «regole chiare per un capitalismo finanziario moralizzato», anticipate dal Presidente francese dalla tribuna dell’Assemblea Generale dell’Onu e poi più diffusamente riprese nel discorso di Tolone di giovedì scorso  celano un chiaro disegno politico, che ha molto a che fare con i problemi dell’economia francese e molto meno con lo spirito dell’integrazione comunitaria. In una recente intervista al quotidiano economico «Les Echos» il Primo ministro Fillon ha chiarito quello che Sarkozy aveva lasciato trapelare parlando ai deputati Ump: la grave situazione finanziaria impone un ripensamento dei criteri draconiani imposti dall’Ue in materia di deficit. «Come si può diminuire il deficit, quando si cresce a meno dell’1%?». Insomma, il Presidente francese sembra pronto a sfruttare, magari in maniera un po’ cinica (ma il cinismo è una categoria politica?) la situazione per mettere a segno un colpo decisivo contro l’ortodossia della Banca centrale europea, non a caso quando indiscrezioni parlano di Parigi oramai in recessione. Più volte rintuzzati, gli attacchi di Sarkozy sferrati in nome della crescita, da opporre al rigorismo della Bce, sembrano oggi avere possibilità di riuscita.

Una quarta e decisiva riflessione deve essere poi svolta proprio riguardo alla Banca centrale europea. Per la prima volta dopo cinque anni di presidenza, Trichet ha puntato il dito sul rischio crisi, piuttosto che su quello inflazionistico e ora, dopo le forti iniezioni di liquidità degli scorsi mesi, sembra pronto a dare il via libera ad un taglio dei tassi di interesse. Se gli analisti hanno preventivato questo taglio per i primi di novembre, al summit di sabato Trichet ribadirà però il suo «no», in piena sintonia con Berlino, ad un piano Paulson all’europea. Ma è nelle motivazioni di questo «no» che risiede il vero nocciolo della questione. Nessun intervento coordinato a livello europeo e via libera a singoli interventi nazionali. «La politica europea non è federale come quella americana!», conclude Trichet.

Arrivederci e grazie all’ideale federalista, ai padri fondatori e anche al metodo funzionalista alla Monnet e Delors. Con l’istituzionalizzazione del metodo, si conceda la semplificazione, dell’«ognun per sé e Dio per tutti», è a rischio l’idea stessa di integrazione. Ha ragione Adriana Cerretelli quando su «Il Sole 24 Ore» ricorda che, senza un coordinamento finanziario a livello europeo, il principale rischio è quello di far saltare in aria la logica del mercato unico, unica ed ineccepibile vittoria europea dal 1957 ad oggi. L’involuzione dell’ideale europeo è davvero giunta fino a questo punto?

Ecco allora che il summit di Parigi più che fornire ricette pratiche per uscire dalla crisi, sarà interessante per comprendere fino a che punto i leader dei principali Paesi europei sono disposti a spingersi nella loro «sclerosi individualista». In tempi non sospetti, cioè ai primi del 2008, un grande esperto di teoria economica scriveva: «L’Europa non sopravvive se si ferma all’economia. L’Europa non sopravvive se ha soluzioni vecchie per problemi nuovi. In Europa non vince chi crede nel passato e nel presente, ma non crede nel futuro». E poi seguivano importanti pagine di proposte concrete per uscire dalla «crisi di identità europea». Quel teorico si chiama Giulio Tremonti e quelle parole le scriveva a conclusione del suo La paura e la speranza. È davvero auspicabile che i protagonisti del prossimo summit di Parigi se le vadano a rileggere.