L’Europa è fatta, gli europei ancora no

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L’Europa è fatta, gli europei ancora no

08 Giugno 2009

Nonostante i tentativi di nascondersi dietro ad improbabili e tardivi ritorni di fiamma per l’Europa, euroscetticismo ed euro-disinteresse si sono concretizzati nel responso elettorale. Il dato più significativo, quello sul quale riflettere prima di suddividere il fronte tra vittoriosi e perdenti alle elezioni europee del 2009, riguarda il livello di astensionismo. Si credeva che il 55% di astenuti del 2004 potesse essere il punto più basso e invece ci si è resi conto che non c’è limite al peggio. Circa il 57% dei cittadini europei ha disertato le urne, con picchi imbarazzanti sia nella cosiddetta “vecchia Europa” che nei Paesi entrati nell’Ue il 1 maggio 2004. Se si prendono infatti in considerazione i dodici Paesi del grande allargamento 2004-2007 si nota che solo in quattro contesti nazionali (Estonia, Lettonia, Cipro e Malta) il livello di partecipazione ha superato il 40%. Sempre tra questi dodici i livelli più bassi sono quelli di Slovacchia (19,6%) e Lituania (20,5%). Si è a lungo ripetuto che nell’area orientale dell’Ue la crisi economica ha colpito con maggiore intensità, anche a causa dell’assenza della protezione offerta dall’euro. Ma un’astensione così alta deve imporre una riflessione seria sui gravi deficit accumulati nel percorso di integrazione ed in particolare nella fase frettolosa e scarsamente meditata dell’allargamento. Ulteriore preoccupazione dovrebbe poi suscitare la scarsa partecipazione che si è registrata anche in realtà come quella olandese, svedese e portoghese, dove l’astensione ha raggiunto i livelli del 65%.

Dunque non solo il Parlamento di Strasburgo sarà composto da parlamentari con una legittimità debole, rappresentata dal voto di poco più di quattro cittadini europei su dieci, ma il 43,49% della partecipazione alle elezioni dell’Europarlamento, se accostato ai “no” francese, olandese e irlandese, conferma un costante “rigetto democratico” ogni volta in cui l’Unione si rivolge direttamente ai suoi cittadini.

Preso atto di questa scarsa partecipazione, si possono poi individuare almeno quattro tendenze espresse dal voto. La prima riguarda la netta sconfitta delle forze della sinistra socialista, socialdemocratica e laburista. Se il riformismo progressista aveva chiuso gli anni Novanta del secolo scorso potendo vantare esperienze vincenti come quella del New Labour inglese, del socialismo spagnolo, ma anche della coalizione rosso-verde in Germania e della gauche plurielle in Francia, l’avvio del XXI secolo non sarà di sicuro socialista. Il dato dovrebbe allarmare ancora di più i dirigenti della sinistra continentale dal momento che nemmeno la crisi economico-finanziaria e le conseguenti accuse alla via liberal-liberista del capitalismo finanziario sono servite per crescere in termini di suffragi. Il dato è oramai ben più che un’impressione: la sinistra continentale è considerata sempre meno credibile in quanto forza di governo. Non solo soffre di una crisi di leadership politica in alcuni contesti oramai cronica (vedi il caso francese e quello tedesco), ma non sembra nemmeno più in grado di interpretare il malcontento e le paure diffuse, pare aver smarrito i suoi storici riferimenti sociali, basti pensare al divorzio con quel che resta della classe operaia, e a quello ancor più preoccupante con i dipendenti pubblici della classe media, storico bacino elettorale della sinistra continentale.

Alla debacle socialista fa da contraltare la tenuta dei partiti di centro-destra dell’area del popolarismo. Anche su questo punto il dato è abbastanza chiaro: si deve parlare di tenuta e non di sfondamento. Quasi certamente i popolari nell’Europarlamento arriveranno a 270 seggi, confermandosi largamente come il primo partito a Strasburgo. Ma se si esclude l’ottimo risultato del francese Ump e quello lusinghiero del Partito popolare spagnolo, mancano all’appello lo sfondamento (atteso) del Pdl italiano e quello (in realtà meno prospettato) della Cdu tedesca. Non bisogna certamente dimenticare che in Italia e Germania i partiti di Berlusconi e Merkel pagano la loro permanenza al governo, storicamente penalizzante in caso di consultazioni europee. Dunque la cartina continentale si tinge del blu dei conservatori di centro-destra, forze maggioritarie ovunque tranne in Svezia, Danimarca, Grecia e Slovacchia, ma di fronte ad una batosta così accentuata del socialismo ci si sarebbe potuti attendere qualcosa di più.

Il terzo dato da valutare con attenzione riguarda i risultati dei movimenti di estrema destra, tutti fortemente critici nei confronti dell’Ue e in alcuni casi portatori di messaggi al limite del populista e dello xenofobo. Si sono avuti risultati di una certa rilevanza per il Sps slovacco, il Fpo austriaco (senza sfondamento), del Pvv olandese (forse il successo più clamoroso), il Vlaams Belang belga e i due partiti inglesi di destra anti-europea, il British National Party e il UK Independence Party. Bisogna però fare molta attenzione a non accomunare progetti ed ideologie di questi partiti. Essi rispondono a domande e a pulsioni essenzialmente nazionali, che solo difficilmente possono trovare un minimo comune denominatore sui temi dell’immigrazione e della critica ad un certo tipo di integrazione europea. Proprio queste profonde differenze nazionali fanno di questo fronte di destra un universo frammentato che difficilmente riuscirà a concretizzarsi in un unico gruppo all’interno dell’Europarlamento.

Infine un ultimo dato di una certa importanza riguarda i conservatori britannici. Se dovessero confermare la loro decisione di abbandonare il Partito popolare europeo, considerato troppo europeista, per creare un gruppo indipendente con l’Ods ceco e il Pis polacco priverebbero il gruppo popolare di una pattuglia di 30-40 deputati che permetterebbe al Ppe di sfondare il tetto dei 300 euro-deputati.

A questo punto bisognerà attendere i prossimi giorni per vedere come i dati politici usciti dalle urne, euro-scetticismo e sconfitta netta dei socialisti, influiranno sul rinnovo dei vertici della Commissione e sulla conclusione del percorso di riforma istituzionale (Trattato di Lisbona). Più che al rinnovo di Barroso o alla preparazione del referendum irlandese, i leader europei al Consiglio di Bruxelles del 18-19 giugno prossimo dovranno fermarsi a riflettere con attenzione sul 43% di partecipazione. 30 anni dopo la prima elezione a suffragio universale diretto del suo Parlamento, l’Europa unita dovrà innanzitutto prendere atto del fallimento del suo tentativo di legittimarsi democraticamente. È da questo dato brutale, ma indubbio, che deve ripartire il percorso di integrazione europea.