L’Europa fa un balzo indietro e si allontana dal baratro

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L’Europa fa un balzo indietro e si allontana dal baratro

22 Luglio 2011

L’atto di coraggio, alla fine, è stato compiuto. Non che servisse Nostradamus per prevedere quale sarebbe stato lo scenario auspicabile – si veda il nostro commento di ieri – ma, si sa, quando si tratta di aprire il portafogli qualunque governo tende a mantenere linee conservatrici e protezionistiche. Questa volta per fortuna tutto questo non è avvenuto. O, perlomeno, è passato in secondo piano. D’altronde era talmente evidente che la situazione richiedesse un intervento urgente e deciso che nessuno si è preso la responsabilità di ostacolare le intese. Dunque, nella sostanza, il vertice dei 17 Stati dell’Eurozona ha concordato un piano di salvataggio strutturato per la Grecia e ha previsto la rimodulazione di quegli strumenti di tutela per la futura stabilità delle economie europee che già esistevano ma che – alla luce dei fatti – erano dotati una scarsa autonomia decisionale. Andiamo con ordine.

Il primo punto che i governanti dovevano affrontare era la situazione disperata del debito greco. Il Paese ellenico – già tecnicamente fallito da tempo – fino a questo momento ha vivacchiato grazie agli aiuti ricevuti nel maggio dell’anno scorso. Poco meno di tre mesi fa lo scenario economico mondiale si è talmente aggravato che la già debole economia greca ha subito un tracollo che ha fatto paventare i più spaventosi scenari. Il panico si è velocemente diffuso su tutte le piazze finanziarie europee, le altre economie in difficoltà sono state colpite da violenti attacchi speculativi – atti a trarre vantaggio dagli enormi differenziali nei tassi – e il nostro Paese ha vissuto un mese di passione bruciando enormi quantità di capitali. Riassunta in poche righe questa era la drammatica situazione che si presentava ieri mattina di fronte ai governanti presenti al vertice di Bruxelles.

Il ventaglio di soluzioni possibili per uscirne più o meno illesi si riduceva sostanzialmente a due opzioni: far fallire la Grecia anche da un punto di vista formale oppure mettere in piedi un disperato piano di salvataggio. Qualunque decisione fosse stata presa sarebbe comunque stata dolorosa per qualcuno: se si fosse optato per il fallimento infatti si sarebbe certamente fatta piazza pulita, tabula rasa, la Grecia avrebbe potuto ripartire da capo senza particolari pressioni da parte degli altri Stati membri ma, piccolo particolare, gli investitori avrebbero perso gran parte dei crediti contratti con Atene, le banche avrebbero svalutato i crediti inesigibili a bilancio, il problema avrebbe coinvolto principalmente gli istituti di credito tedeschi e francesi, una spirale di vendite e sfiducia avrebbe quindi investito i mercati e chi lo sa che storia staremmo raccontando oggi alla riapertura delle Borse mondiali.

È evidente che, per quanto estremamente sfidante e forse azzardata, l’unica strada percorribile era quella di un salvataggio dei greci. Finalmente ha prevalso l’idea di Europa unita, solida, monolitica contro gli attacchi provenienti dall’esterno. Ha prevalso la linea del consociativismo, della solidarietà sociale ed economica. In una parola, ha prevalso il buonsenso. Certo, il piano di salvataggio da 109 miliardi di euro – con un sostanziale contributo del settore privato, circa 37 miliardi – non è un passo che viene fatto a cuor leggero. Tuttavia, su una bilancia costi-benefici, il piatto di questa opzione pende prepotentemente a favore delle decisioni prese dai leader dell’Eurozona. Oltre all’enorme cifra stanziata, infatti, alla Grecia è stata accordata una diluizione dei termini di pagamento – che passano dagli attuali sette anni e mezzo a un minimo di quindici anni – e una diminuzione del tasso di interesse – che, si dice, potrebbe addirittura attestarsi intorno al 3,5%.

Archiviato il capitolo Atene, i governanti si sono poi dovuti confrontare sull’altro enorme problema che sta mettendo in ginocchio le Borse di mezza Europa da un mese a questa parte: l’opinione degli investitori e, conseguentemente, gli attacchi speculativi. L’unica strada immediatamente percorribile per arginare l’ondata di sfiducia e vendite sui mercati – l’abbiamo, poco profeticamente, indicato nell’articolo di ieri – era solo quella di rafforzare il fondo di stabilità dell’Eurozona (Efsf), assecondando le aspettative di economisti e investitori che ne richiedevano una rimodulazione a gran voce. Così è stato fatto. Ed è stato fatto con un intervento che appare molto come cassaforte per ogni ulteriore possibile disagio di uno o più Paesi membri. Dalle decisioni prese emerge che la European financial stability facility (Esfs) potrà concedere crediti fino a trent’anni a tassi che potranno scendere fino al 3,5% – come si diceva precedentemente.

Secondo fondamentale aspetto, la Esfs potrà agire sul mercato secondario acquistando direttamente titoli di debito emessi da qualsiasi Stato europeo – non solamente, quindi, da quelli in crisi. Infine, sono state gettate le basi per l’incremento del fondo di dotazione della società lussemburghese oltre gli attuali 440 miliardi di euro per far fronte a possibili shock futuri. Ai primi lanci di agenzia che riportavano le decisioni di massima prese dal vertice le Borse europee, che fino a quel momento avevano stentato, hanno visto un deciso balzo in avanti. Milano ha chiuso in deciso rialzo. Forti i titoli bancari che, apparentemente, hanno visto dissolversi i rischi di default del debito greco.Il piano dunque c’è e apparentemente ha raccolto larghi consensi da parte di tutti. Ma quel che più è stato apprezzato è stato il fatto che finalmente, in un momento chiave, decisivo, drammatico, l’Unione Europea – finora molto europea ma poco unione – ha mostrato al mondo la capacità di agire in maniera concertata, in una direzione comune, sciolta da interessi particolaristici e limitanti gli obiettivi che si erano prefissi i padri fondatori. Quello che c’è da augurarsi è che questo atteggiamento non venga mantenuto solo quando l’acqua è arrivata al collo.