L’Europa ha bocciato la sinistra perché alle politiche sociali ci pensa la destra

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L’Europa ha bocciato la sinistra perché alle politiche sociali ci pensa la destra

21 Giugno 2009

In un editoriale apparso sul Corriere della Sera di sabato 13 giugno, commentando la débacle dei partiti di sinistra alle recenti elezioni europee, Piero Ostellino conclude che i cittadini comunitari hanno bocciato la socialdemocrazia perché ne respingono le ricette per uscire dalla crisi. La natura e la portata dello tsunami che ha colpito l’economia mondiale, il comportamento “disinvolto” di centri finanziari e imprese che lo ha provocato, aveva fatto dire a esperti e governanti che fosse giunto il momento di introdurre più Stato nel mercato, di instaurare forme di regolamentazione e controllo del capitalismo selvaggio.

Bocciando la socialdemocrazia, a detta di Ostellino, i cittadini europei hanno bocciato qualsiasi soluzione di stampo keynesiano (o, peggio ancora, dirigista) alla crisi e si sono mostrati più saggi dei soloni di turno. Più Stato nell’economia vuol dire più spesa pubblica e, di conseguenza, più tasse o più debito: a farne le spese, presto o tardi, sono comunque i contribuenti.

Ma è davvero così? La spiegazione di Ostellino, pur valida, è anche esauriente? Tra le proposte della socialdemocrazia europea figura il sostegno alle fasce sociali più deboli, a vecchi e nuovi disoccupati, ai lavoratori minacciati dall’erosione del reddito, e questo di per sé non può alienare il favore dei cittadini. Quanto all’intervento statale, esso non significa solo aumento del debito pubblico o della tassazione e crescita inevitabile degli sprechi e delle inefficienze. Oltre che economico, l’intervento statale può essere normativo: agendo nei panni di operatore economico e soprattutto di legislatore, lo Stato può cercare di correggere le distorsioni del mercato e le anomalie redistributive, può favorire lo sviluppo della concorrenza, della ricerca e dell’innovazione, può riportare le banche al compito originario di finanziare l’economia reale dissuadendole dal comportarsi come “imprese finanziarie” a caccia di utili. Almeno questo i cittadini se lo aspettano da qualunque governo.

Il punto è un altro. Nella maggior parte dei Paesi europei, dove sono al governo, i partiti di destra stanno facendo a loro modo più o meno quello che farebbe la socialdemocrazia. Con qualche differenza e molti punti di contatto tra Stato e Stato, sostengono le imprese e i lavoratori, cercano di disciplinare il sistema bancario, si adoperano per rilanciare al più presto l’economia. L’unica, non trascurabile eccezione è forse rappresentata dalla carenza di riforme strutturali, che tuttavia non hanno un impatto immediato sulla vita e le intenzioni di voto dei cittadini.

Il voto di giugno non può essere interpretato come una mozione di sfiducia verso la regolamentazione del mercato e il ruolo dello Stato nell’economia. Semplicemente, più che vagheggiare miracolose panacee, gli elettori hanno mostrato di essere (abbastanza) soddisfatti dalle risposte date dai governi di destra. Le hanno approvate o quantomeno hanno deciso di stare a vedere.

C’è di più. Agli occhi dei cittadini europei, i partiti di sinistra appaiono gravati da un disincanto fatale nei confronti del socialismo o, al contrario, da una pregiudiziale ideologica che condiziona molto meno i loro avversari. Così essi perdono voti sia a sinistra che al centro. I partiti di destra, invece, hanno dimostrato di essere più flessibili e “operativi”. Hanno usato la socialdemocrazia per introdurre “correttivi” al libero gioco del mercato senza indulgere a quello spirito di “assalto alla diligenza” che talvolta caratterizza le forze di sinistra, senza agitare grimaldelli per scardinare il modello capitalista e instaurare un presunto nuovo ordine economico.

Nessuno ragionevolmente crede più che le sinistre europee possano coltivare un progetto “massimalista”, che covino intenti punitivi verso il capitalismo e il mercato, ma non si può negare che certe pulsioni, eteree e vaganti come spettri, lasciano uno strascico nelle ricette economiche di una parte almeno della grande famiglia socialdemocratica. Nel rapporto col mercato e i suoi protagonisti, specie col mondo imprenditoriale che è al centro della crisi, le destre mantengono qualche lunghezza di vantaggio. Inoltre, siccome l’intervento statale è in linea di principio contrario alla loro cultura di riferimento, esse offrono maggiori garanzie di evitare abusi e sovradosaggi. Per non dire del fatto che, a parte l’economia, le ricette politiche della destra (in tema di immigrazione, sicurezza, modello sociale e richiamo a un “sano conservatorismo”) risultano più convincenti o almeno più vicine all’umore della gente.

Ma forse il declino della socialdemocrazia ha radici più profonde. In tutta Europa i partiti di sinistra sembrano affetti da un inguaribile intellettualismo e un malcelato senso di superiorità, da una tendenza a “filosofeggiare”, a concepire una infallibile “filosofia della storia”, a incardinare la realtà entro una griglia di categorie astratte e precostituite. Nel cercare la quadratura del cerchio, la formula politica perfetta, nell’inseguire a tutti i costi la bandiera del “riformismo” e del “progressismo”, le sinistre hanno perso contatto con la gente, si sono staccate dal loro popolo e forse perfino dalla realtà.

Di recente l’onorevole D’Alema ha affermato che la politica non si fonda su schemi di pensiero o sulla vocazione messianica di qualche molto umano leader di partito, ma su progetti concreti; essa non è il luogo dello scontro ideologico ma della sintesi intorno a formule e proposte “aggreganti”. Un’analisi condivisibile e un’ammirevole dichiarazione di intenti, non c’è che dire; e tuttavia, a sinistra, ancora una pia illusione. I cittadini europei pare se ne siano accorti.