L’Europa sconta il fallimento dell’asse Merkel-Sarkò, l’Italia quello di Monti
24 Aprile 2012
La vittoria al primo turno di François Hollande non indica affatto che la Francia sta svoltando a sinistra, perché è dovuta, in gran parte, al successo di Marine Le Pen, che ha avuto più del 19 % dei voti. Sommati a quello di Nicolas Sarkozy i voti della destra francese sono il 45,3% e se ad essi si aggiungono quelli del centro, il totale è attorno al 55%. Occorre anche aggiungere che sul lato sinistro dello schieramento, l’ala per così dire socialdemocratica rappresentata da Hollande non arriva al 30%, mentre c’è una sinistra estrema superiore al 10%.
Può darsi che le elezioni presidenziali francesi siano vinte da François Hollande, ma dal voto francese emerge che, nonostante tutti gli errori accumulati da Sarkozy, non esiste ancora, nel secondo stato dell’eurozona, la Repubblica francese, una alternativa di socialismo “liberal-social democratico” sufficiente a creare una visione alternativa a quella che ha sin qui dominato, con l’asse Merkel-Sarkozy. Ciò nonostante tutte le delusioni che esso ha dato e sta dando, non essendo riuscito ad esprimere un modello di società e di economia liberale con orientamento sociale, al di là di unilaterali politiche di rigore, di generiche dichiarazioni pro-crescita e della burocrazia farraginosa del governo europeo costituito dalla Commissione di Bruxelles.
Ora si è dimesso anche il premier olandese Mark Rutte che non è riuscito a far approvare dall’ala destra del suo governo di centro destra le misure di bilancio che egli sosteneva. Rutte era uno dei più fedeli sostenitori della politica di rigore senza crescita del duo Merkel-Sarkozy. Berlusconi non riusciva a convincere la Lega Nord alla riforma delle pensioni, Rutte non è riuscito ad avere l’assenso ai tagli di bilancio da lui progettati, da parte della destra che lo appoggiava dall’esterno. Non è chiaro per quale ragione teorica i governi che hanno un basso rapporto debito Pil e un attivo nei conti con l’estero di parte corrente debbano contrarre i loro deficit, anziché evitare di farlo al fine di controbilanciare l’effetto recessivo della riduzione dei deficit degli stati in difficoltà.
La finanza pubblica genuinamente liberale non è tale perché opposta a quella keynesiana. Essa deve operare con una azione conforme al mercato, quindi non deve introdurvi, con le sue politiche di bilancio, né spinte inflazionistiche dovute a disavanzi “eccessivi” globali né spinte recessive globali. Deve mirare all’equilibrio fra le varie grandezze economiche. Ricordate gli sguardi tra l’ironico e il velato compatimento per Silvio Berlusconi che il duo Merkel e Sarkozy diede da un podio europeo lo scorso autunno? Una fotografia che fece il giro di tutta la nostra grande stampa che gioiva nel vedere umiliata l’Italia, perché vi vedeva soprattutto umiliato il leader del governo italiano che essa mal sopportava? Ora quel sorriso un po’ ironico e un po’ di compatimento lo si può rivolgere la duo in questione, in particolare a Sarkozy, che non aveva capito che la Francia avrebbe avuto tutto da guadagnare dando un maggior credito all’Italia, ai fini della combinazione della politica di rigore con quella anti-recessiva. Ed ora paga il prezzo per non averlo capito.
Il futuro politico ed economico dell’Europa, di cui l’eurozona è il cuore, dopo la perdita di consensi di Sarkozy e di Rutte rimane incerto. C’è il rischio che si passi da un estremo all’altro. Ed è bene, pertanto, che l’Italia, cerchi di risolvere i propri problemi, con le proprie forze, come ha osservato il segretario generale del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde. Lo spread sui Bpt è tornato sopra i 400 punti, sia in relazione alle incertezze, che riguardano il futuro della Francia, sia in relazione a quelle che riguardano il nostro cammino verso il riassetto del bilancio pubblico e la flessibilità dell’economia di mercato. Che l’immagine del governo Monti si sia un po’ appannata è chiaro ad ogni osservatore spassionato. Forse non è abbastanza chiaro che la ragione di ciò è che il governo si è arenato sulla politica tributaria e su quella della riforma del mercato del lavoro, perché si sono dimostrare errate le due grandi ricette degli economisti della scuola bocconiana, della sinistra liberal. Quella riguardante la tassazione patrimoniale degli immobili come alternativa e complemento alla precedente formula, basata sulle imposte sul reddito e sui consumi, e quella riguardante la riforma del mercato del lavoro, basata sulla flessibilità in uscita, secondo lo schema del contratto di lavoro unico nazionale, che comportava di fare macchina indietro rispetto alla riforma Biagi e alla contrattazione periferica.
Dopo avere adottato la via della tassazione patrimoniale immobiliare distribuita su una ampia platea di soggetti, secondo la ricetta bocconiana, ampiamente sostenuta da Confindustria, ci si è resi conto che gli effetti depressivi sull’economia di questa tassazione sono particolarmente ampi. Tanto che il nuovo presidente di Confindustria Squinzi ora adotta, a questo riguardo, una linea opposta a quella del suo predecessore. Le imposte sulle proprietà immobiliari diffuse hanno un doppio effetto depressivo che altri tributi non hanno: riducono il valore patrimoniale dei cespiti su cui ricadano perché si capitalizzano e quindi deprimono il mercato immobiliare e l’edilizia con un effetto moltiplicativo; inoltre riducono il valore del patrimonio privato immobiliare che costituisce la contropartita attiva, nel conto nazionale del patrimonio, rispetto al debito pubblico e all’indebitamento delle famiglie, delle imprese e delle banche.
Non sarà facile rimediare a questo errore, anche perché un parte sostanziale del gettito di questi tributi va alla finanza locale, generando per essa nuove risorse di spesa, che non sarà agevole comprimere. In genere, quando uno Stato vuole mettere in ordine i conti pubblici, operando sul lato delle imposte, deve cercare il più possibile di aumentare le proprie, non quelle della finanza locale, che non affluiscono al suo bilancio.
Su ciò si dovrà tornare. Ora importa la grande sfida che in parlamento si svolgerà circa il disegno di legge sul lavoro, con riguardo al ripristino delle norme sulla flessibilità in entrata, che è essenziale mantenere se si crede in una economia sociale basata sulla libertà. Il ministro Fornero ha cercato di fare uno scambio fra la maggiore flessibilità in uscita e una minore flessibilità in entrata, secondo il modello bocconiano, per il quale la riforma Biagi è una aberrazione o, nella migliore delle ipotesi, un ripiego transitorio che va superato. Questo scambio non ha funzionato, dal punto di vista della articolazione del disegno di legge, perché il ministro Fornero, pur fra le polemiche, ha scelto la strada, già percorsa da Emma Marcegaglia, di dare, fra gli interlocutori sindacali, un peso privilegiato alla Cgil. Questa si configura sempre più come un sindacato corporativo, che usa abilmente le tattiche comuniste di tradizione leninista consistenti nell’imbrogliare le carte in tavola. La parte sulla flessibilità in uscita è stata annacquata, all’ultimo minuto, sotto le pressioni della Cgil, dopo che essa aveva già ottenuto ampie concessioni sulla riduzione della flessibilità in entrata. Così il modello di economia del mercato del lavoro bocconiano è stato stravolto, mentre si cerca di mandare in soffitta la riforma Biagi.
I professori bocconiani hanno sconfessato la riforma Fornero, lo ha fatto anche Emma Marcegaglia, che doveva rendersi conto prima che i patti con la Cgil non sono mai veri patti. Ma anche dal punto di vista politico e sociale, lo scambio ideato dal ministro Fornero non sta funzionando. Il ministro ha commesso l’errore di accettare un invito della Fiom-Cgil all’Alenia di Torino. Non ha chiesto che l’invito fosse di tutti i sindacati. La contestazione che ha ricevuto da parte della Cgil e gli applausi finali (definiti di cortesia dal segretario della Fiom) non hanno rilevanza. Ciò che conta è che questo metodo, di dare ascolto a chi grida di più, non a chi vuole ragionare, è sbagliato. Ora, proprio per aiutare il governo a non commettere altri errori, che danneggerebbero il paese, e soprattutto il mondo del lavoro, sarà bene togliere di mezzo gli ostacoli alla riforma Biagi che ci sono nel disegno di legge.
Il Pdl ha preparato una lista di emendamenti che riguardano i contratti a termine, per confermare la attuale disciplina, con particolare attenzione al contratto stagionale, evitando condizioni più sfavorevoli a quelle attuate negli Stati dell’Unione europea. Altri emendamenti mirano a confermare e attuare la recente riforma dell’apprendistato e a, mantenere il contratto di inserimento, che anche quest’anno ha generato nuova occupazione, per un numero rilevante di posizioni. Altri emendamenti riguardano i lavoratori con partite Iva, considerate come strumento fisiologico di auto impiego. Altri, infine, mirano a promuovere la diffusione dei voucher, che, sopratutto nell’area centro-meridionale sono uno strumento importante per fare emergere lavoro sommerso, specialmente in agricoltura e nei servizi. Oltre all’approvazione di questi emendamenti, occorre che si dia una tempestiva attuazione al decreto interministeriale riguardante la detassazione dei salari di produttività, almeno in misura tale da confermare la platea degli attuali potenziali beneficiari e da impiegare tutti i mezzi finanziari già disposti per la copertura del costo di questo incentivo. Questi provvedimenti servono per l’aumento dell’occupazione mediante la flessibilità e la produttività, quindi anche per la crescita economica e per il miglioramento del saldo della nostra bilancia con l’estero. Ci sono, a livello europeo, delle colpe con riguardo alla unilateralità e alla rozzezza della politica del “rigore” perseguita dall’asse Sarkozi-Merkel, ma ci sono anche problemi non risolti in casa nostra. Ed è bene che di essi ci preoccupiamo. Ciò particolarmente ora che lo spread sui nostri Bpt è tornato a livello 400, anche perché il governo in carica non ha ancora dato una risposta soddisfacente sui due temi della riforma del mercato del lavoro e della politica per la crescita.