L’Europa teme i generali turchi e aiuta gli islamici
02 Maggio 2007
E’ oggi evidente, la più piena sconfitta di Tayyp Erdogan al termine del braccio di ferro che lui stesso ha iniziato sulla presidenza del paese. Lui si è dovuto ritirare, il suo candidato, Gul, è stato sconfitto, e ha dovuto piegarsi alle richieste dell’opposizione che chiedeva elezioni anticipate immediate. Una sconfitta bruciante, non coperta dal trucco della proposta di riforma costituzionale che l’accompagna. Da qui alle elezioni del 24 giugno non si farà nessuna riforma costituzionale e questa rimane un semplice auspicio dell’attuale maggioranza che potrà essere concretizzato solo nel caso, molto improbabile, che Erdogan possa controllare il prossimo parlamento col 67% dei seggi come fa oggi, grazie a una legge elettorale sciagurata (non voluta da lui, però) in cui lo sbarramento del 10% gli ha permesso di conseguire questo risultato con solo il 34% dei suffragi popolari.
Ma la sconfitta di Erdogan non è nulla rispetto a quella dell’Europa che anche in occasione di questa crisi ha dimostrato di non comprendere nulla non solo della Turchia, ma anche delle società islamiche.
Determinante nell’obbligare Erdogan alla ritirata è stata infatti l’alleanza tra tre attori tipici – e originali – della società turca: il blocco sociale laico, il “partito dei generali” e i “mandarini” kemalisti che controllano le istituzioni. Le manifestazioni di più di un milione di laici contro la prospettiva di una presidenza della Repubblica assegnata ad un islamico, infatti, hanno avuto una immediata e possente proiezione politica e istituzionale nel “partito dei generali”, che hanno apertamente minacciato i carri armati nelle strade se Eredogan avesse perseguito nella sua strada. Se non vi fosse stata questa concretissima possibilità, se i generali non avessero fatto capire a Erdogan che non poteva contare sulla dispersione politica dei laici (e sulla loro quasi nulla presenza in parlamento), nulla avrebbe potuto impedirgli di perseguire il suo risultato. Ma Erdogan sa che i generali turchi non scherzano, sa che hanno fatto sloggiare dal governo il suo ex leader, il fondamentalista Erbakan nel 1997, e sa anche che quegli stessi generali lo hanno già umiliato personalmente nel 2002, quando gli hanno impedito di candidarsi al parlamento – e quindi di fare il premier, nonostante avesse trionfato alle elezioni – obbligandolo alle forche caudine di una elezione suppletiva sei mesi dopo, e si è ritirato in buon ordine.
E’ esattamente la quinta volta che i generali turchi salvano la democrazia in quel paese, ma l’Europa, prigioniera di Montesquieu e della sua storia, non se ne vuole ancora rendere conto e fa danni.
Pure, non è difficile accorgersi che la Turchia è l’unico paese del mondo a maggioranza schiacciante di musulmani a democrazia matura (Indonesia e Malaysia sono ancora democrazie acerbe, in cui non è avvenuto, come ad Ankara, uno, due, cinque volte un ricambio completo di classe al governo per esclusiva via elettorale) e che questo è stato garantito solo dal ruolo eccezionale dei generali turchi.
Nel 1960, poi nel 1970, nel 1980, nel 1997 e ancora oggi, i generali turchi hanno usato dei carri armati, in alcuni casi della sospensione per pochi mesi delle regole democratiche, sempre ed esclusivamente per ritornare poi da soli, subito dopo, nelle caserme e riavviare il processo democratico.
E’ un fenomeno unico – naturalmente non lineare, violento, ma funzionante – legato alla straordinaria originalità dell’esperienza kemalista, garantito dal fatto che da 50 anni i generali turchi escono da West Point, grazie alla Nato, ma è un fenomeno indiscutibile: l’unica garanzia per la laicità dello stato in un paese islamico è stata sinora offerta dall’esercito turco.
L’Europa, però, non se ne vuole rendere conto e così da anni impone alla Turchia di eliminare questa sua fondamentale garanzia democratica in ossequio ai “parametri di Copenhagen”, che devono essere rispettati da Ankara se vuole aspirare all’ingresso nella Ue. Nessuno ne parla, ma in questa posizione c’è della vera e propria follia. I “parametri di Copenhagen”, sono stati infatti stesi nel 1992 per dirigere il processo di integrazione in Europa dei paesi a economia di Stato e a dirigenza statuale comunista del dissolto Patto di Varsavia. Ovviamente, sono calibrati su quella necessità e nulla hanno a che fare con la prospettiva di una integrazione in Europa di un paese a economia pienamente di mercato, ma ipotecato dalla specifica concezione dello Stato dell’Islam.
Ma nessuno, in Europa, si accorge di questo, i generali turchi vengono guardati come fossero assassini cileni e nessuno si accorge neanche che questa demenza senile europea è stata accolta con favore immenso proprio da quelle forze, Erdogan in testa, che hanno intenzione di islamizzare – sia pure moderatamente – lo Stato e di diminuirne le caratteristiche laiche.
Erdogan ha entusiasticamente avviato le riforme costituzionali che hanno tolto ai militari buona parte dei poteri, l’Europa ha applaudito, e non si è accorta che così facendo si privava dell’unico antidoto che le garantiva di non avere una situazione algerina da anni novanta ai suoi confini.
Applicando “Copenhagen” infatti, il governo della Turchia può benissimo un domani essere conquistato per via elettorale, non solo da un altro Erdogan, ma anche da un risorto Erbakan, un fondamentalista musulmano che sia in grado – come è concretissima possibilità – di conquistare i voti delle masse contadine e urbane dell’Anatolia, attraversate da una visibilissima riscossa islamica.
Grazie all’Ue, da qui a pochi anni, ad Ankara potrà andare al potere un partito dalle idee non moto diverse da quelle di Hamas. Grande risultato.