L’Europa torna unita per trovare una soluzione alla crisi

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L’Europa torna unita per trovare una soluzione alla crisi

13 Ottobre 2008

L’Europa c’è e risponde "presente" in questo momento di drammatica crisi finanziaria. Ma soprattutto, per una volta, il suo agire in maniera decisa potrebbe significare l’avvio della costruzione di un suo reale profilo politico. Quello di un’Europa che non vuole più, in maniera utopica, superare la centralità dello Stato-nazione, ma mobilitarsi per portare le sue realtà nazionali più dinamiche a operare congiuntamente per rinnovare un ruolo globale del Vecchio Continente altrimenti destinato a essere travolto nel mondo post-bipolare.

Dalla riunione dei 15 Paesi dell’Eurogruppo tenutasi ieri a Parigi (e preceduta da un importante incontro tra il Presidente di turno dell’Unione Sarkozy e il Primo ministro inglese Gordon Brown, assente al vertice dal momento che Londra non condivide con i 15 la moneta comune) sono emerse alcune importanti decisioni per cercare di tamponare la crisi attuale sul breve-medio periodo.

I 15 Paesi dell’area euro hanno fatto proprie le indicazioni provenienti dal G7 dei ministri dell’economia che si è svolto tra venerdì e sabato a Washington. I punti più significativi riguardano gli interventi statali finalizzati alla ricapitalizzazione delle banche in difficoltà, le garanzie di Stato al mercato interbancario, di modo che si sblocchino quei prestiti tra banche che oggi sono fermi per reciproca sfiducia e la possibilità di sostituire i prodotti finanziari “malati” con titoli di Stato. E ancora nuove iniezioni di liquidità da parte della Bce e una maggiore flessibilità nell’applicazione delle regole contabili. Il tutto per un periodo di tempo limitato, cioè fino al 31 dicembre del 2009, ma comunque sufficiente, si spera, per far risalire la fiducia dei mercati, che attualmente è il primo responsabile della drammatica congiuntura finanziaria internazionale.

Si tratta di una “tool box”, come l’ha definita il Presidente dell’Eurogruppo Juncker, cioè una “cassetta degli attrezzi” dalla quale i singoli Paesi potranno attingere in maniera coordinata per operare poi secondo le proprie specificità nazionali. Quindi la settimana che si apre sarà determinante per vedere gli effetti combinati dei vari provvedimenti nazionali e anche per valutarli su scala allargata visto che, al Consiglio europeo di mercoledì e giovedì, la Presidenza di turno francese proporrà il piano anche ai dodici Paesi presenti nell’Unione ma al momento fuori dalla zona euro.

Dunque se è ancora prematura una valutazione degli effetti concreti di questo maxi-piano europeo, (determinante sarà anche la risposta che forniranno i mercati all’apertura e nei prossimi giorni), si possono avanzare alcune riflessioni di natura politica. Prima di tutto deve essere sottolineato l’importante ruolo svolto dalla Gran Bretagna e il vero e proprio “colpo di reni” di un Gordon Brown che, messo con le spalle al muro nel Labour e nel Paese, e con una crisi finanziaria tra le peggiori in Europa, ha saputo indicare la via d’uscita ai Paesi della zona euro. Il suo piano di salvataggio dell’ammontare di 500 miliardi di sterline, che si concretizzerà con l’acquisizione da parte dello Stato del controllo sui due principali gruppi bancari inglesi (RBS e HBOS), oltre all’ingresso dello Stato nel capitale di molte altre banche e la garanzia per i prestiti interbancari, ha tracciato la via maestra che i 15 hanno poi scelto di seguire. Da questo punto di vista, altamente simbolico è stato l’incontro all’Eliseo tra Sarkozy e Brown poco prima dell’apertura del vertice dell’Eurogruppo. Dunque Londra, in questo momento così drammatico per l’Europa, rispolvera un’identità continentale che fa sembrare l’isola britannica molto più vicina al Vecchio Continente.

Secondo punto decisivo: una rinnovata sintonia sull’asse franco-tedesco e la conferma, se ve ne era necessità, che difficilmente c’è un futuro per l’Unione europea se si moltiplicano i contrasti franco-tedeschi (come era parso nelle ultime settimane). In un mondo cambiato e in un’Europa profondamente diversa rispetto a quella delle origini anche l’asse tra Parigi e Berlino è destinato a mutare. Ma una metamorfosi non significa una sua scomparsa né tanto meno un ridimensionamento della sua importanza. L’incontro di sabato tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, in un luogo simbolico come Colombey-les-deux-Eglises, residenza storica di de Gaulle (qui si trova la tomba del generale e un grande memoriale inaugurato in occasione dei 50 anni dalla nascita della V Repubblica), ha sancito, nel ricordo della prima stretta di mano tra de Gaulle e Adenauer, il carattere imprescindibile della “relazione speciale” tra Parigi e Berlino. Le resistenze di Merkel a un piano comune europeo anticrisi e i quotidiani attacchi di Sarkozy all’autonomia della Bce sembravano aver incrinato non poco questo legame. La memoria degli sforzi compiuti dai due ex nemici della Seconda Guerra mondiale (ma anche della Prima) per costruire un’Europa fondata sull’economia sociale di mercato e su un avanzato modello di welfare, i due leader francese e tedesco hanno nuovamente scelto la via della tradizione: operare congiuntamente nel tentativo di portare l’attuale Europa unita e allargata fuori dal guado nel quale si è pericolosamente arenata.

Infine un terzo e importante dato da sottolineare è il ruolo di primo piano svolto dall’Italia in questa complicata congiuntura. È vero che, in concreto, l’idea di un fondo comune europeo di salvataggio non è stata accettata, ma in realtà la decisione di dare il via libera a una serie di interventi “concordati” assomiglia molto ad un escamotage per attuare la proposta che il ministro Tremonti aveva avanzato per primo. Il governo italiano ha dato prova di un saldo europeismo, mettendo a tacere le voci di chi – all’inizio della legislatura, cercava di accusarlo di scarso spirito europeo per la presenza dei ministri leghisti. Ma ha anche rinnovato la sua centralità in quel direttorio informale a quattro (Londra, Parigi, Berlino e Roma) dove il nostro Paese occupa oramai stabilmente la posizione alla quale ambiva la Spagna di Zapatero.

In attesa di conoscere il responso dei mercati e le modalità attraverso le quali i singoli Stati europei implementeranno i loro salvataggi bancari, l’Europa può guardare in maniera più ottimistica al Consiglio europeo di mercoledì e giovedì, nella convinzione che l’allargamento a tutti i Paesi membri delle decisioni assunte dall’Eurogruppo sia una condizione imprescindibile affinché i Paesi europei comincino la loro lenta risalita.

Con la riunione di ieri, i 15 leader europei hanno sancito un importante ritorno del ruolo dello Stato in economia. Questo momento storico merita una duplice riflessione. Si è definitivamente infranta l’utopia della sinistra mondiale, maggioritaria nel corso degli anni Novanta, per cui l’evoluzione planetaria stesse marciando spedita verso la scomparsa dello Stato-nazione a tutto vantaggio della nuova centralità di organismi internazionali, politici e finanziari, come il Wto, l’Onu e l’Unione europea, concepiti in una versione assolutistica e antinazionale. L’esplosione del terrorismo internazionale aveva assestato un primo colpo a questa perversa lettura dello sviluppo politico globale. Questa crisi finanziaria e i tentativi per superarla ne costituiscono un’ulteriore conferma.

Nel sostenere questo ruolo rinnovato dello Stato, in particolare in economia, bisogna fare grande attenzione a non prestare il fianco al ritorno in auge di una serie di teorie fondate sull’anti-capitalismo, l’antiliberalismo e naturalmente l’anti-americanismo, che da alcune settimane sembrano aver trovato una rinnovata dignità anche sulle colonne di autorevoli quotidiani o nei talk-show politici più seguiti. Sul banco degli imputati possiamo portare la cattiva finanza o i banchieri rapaci, ma non nè ammissibile, né tanto meno auspicabile, lanciarsi all’attacco del sistema capitalistico in quanto tale. Il modello deve rinnovarsi e depurarsi dalle sue scorie, ma attenzione a non buttare via il bambino con l’acqua sporca…

Insomma se Wall Street crolla non significa automaticamente che le farneticazioni terzomondiste e antiliberali si siano tramutate in illuminanti analisi di economia politica e finanziaria. Si può legittimamente dichiarare concluso il “secolo americano” e il modello emerso da Bretton Woods ma non si deve dimenticare quanto sia urgente e necessario fondarne uno nuovo. Nel vuoto di idee e di leadership finiscono per prosperare i fanatici e gli apprendisti stregoni.