Liberale più per passione che per professione
25 Maggio 2008
Nel suo ultimo, discusso libro (La paura e la speranza), Giulio Tremonti conduce una critica tagliente della mentalità prevalente nelle élites europee, che a me è sembrata di particolare interesse. Più che le analisi economiche e le proposte “tecniche” contenute nel volume (che non sarei in grado di discutere adeguatamente), a colpirmi sono stati soprattutto questi suoi aspetti “culturali”: in particolare la netta distinzione, o meglio, la vera e propria contrapposizione, fra il liberalismo classico e quello che Tremonti chiama il “mercatismo”. Come se nella prassi e nelle idee di certo liberalismo contemporaneo, anzi proprio nella sua antropologia, si sia assistito a un dérapage, che in qualche modo ha segnato una cesura con molte delle sue esperienze precedenti.
La bella mostra allestita nel palazzo del Quirinale su "L’eredità di Luigi Einaudi: la nascita dell’Italia repubblicana e la costruzione dell’Europa" che, come tanti altri, anch’io ho avuto modo recentemente di visitare, può offrire una (ovviamente parziale) verifica di tale ipotesi: considerando la figura di Einaudi, come ci viene in essa presentata, tale cesura è, infatti, facilmente percepibile. E ciò è ancor più significativo, perché egli non era il tipico “liberale” italiano di un secolo fa, imbevuto di cultura tedesca, storicista e spesso anche statalista, ma un economista, uno storico e uno studioso di problemi finanziari, britannico di cultura e di orientamenti politici, insomma un “liberista” convinto. Non voglio ovviamente stabilire un qualche nesso fra le idee einaudiane e le proposte di Tremonti: sono la cultura profonda di Einaudi, il suo atteggiamento verso la vita e il mondo, il modo in cui riuscì a tradurre il suo liberalismo in un tratto esistenziale e in un costume di vita, che marcano la sua alterità rispetto al “mercatismo” contemporaneo.
Il “mercatismo” – ci dice Tremonti – è “la versione degenerata del liberismo”. Nella sua lunga lotta contro il comunismo, un certo “liberismo” ha finito per mutuare qualcosa dall’avversario, pur nell’opposizione: l’idea che la vita degli uomini sia mossa e possa essere mossa da una “legge”, il furore ideologico, l’attivismo estremistico. Soprattutto consumismo e comunismo si sono fusi in un nuovo materialismo (Tremonti parla efficacemente di un “nuovo materialismo storico”): l’unico tipo umano che il “mercatismo” considera è quello che “non solo consuma per esistere, ma che esiste per consumare”, “un soggetto che pensa come consuma e consuma come pensa, per cui i vecchi simboli civili e morali sono sostituiti dalle icone e dalle immagini commerciali” (pp. 35-36).
Ora chiunque ha un minimo di familiarità col pensiero di Einaudi, può misurare la distanza che lo separa da questo approccio. In lui il progresso non corrisponde mai a un puro accrescimento quantitativo di beni materiali: l’elevazione materiale degli uomini deve procedere di pari passo con quella intellettuale e morale. Fra le tante pagine che si potrebbero leggere, ne scelgo una dell’agosto 1911: «Può parere strano che uno studioso di scienze economiche parli sovratutto di ‘energie morali’ e di ‘elevazione spirituale dell’uomo’. Purtroppo le lezioni che nell’ultimo trentennio si poterono leggere sui libri degli economisti non hanno contribuito molto alla formazione dell’uomo e per conseguenza all’incremento della ricchezza. Noi abbiamo avuto il torto di predicare troppo spesso che gli uomini sono il trastullo delle cieche forze economiche; che gli uomini sono quali li formano l’ambiente, la ricchezza acquisita, il mestiere, la povertà della famiglia, la classe sociale in cui si è nati. (…) Bisogna che anche noialtri, cultori della scienza della ricchezza, abituati troppo a vedere solo il lato economico dei problemi, diciamo ben forte che la speranza del rinnovamento economico potrà avverarsi solo se prima l’uomo si sarà rinnovato. L’ “uomo” come somma di energie spirituali, morali, come forza che si oppone alla natura da secoli impoverita, al governo corruttore, all’ambiente torpido, alla miseria circostante; e vuole colla sua volontà, colla sua energia, colla religione della famiglia e della patria creare un nuovo mondo, più bello e più ricco, al posto del vecchio mondo ereditato dai secoli scorsi».
E’ altrettanto noto che l’esempio fondamentale di tali energie morali egli lo ricavò dalla vita e dal lavoro del mondo rurale piemontese, donde un legame quasi fisico con la sua terra, con la sua natura, col suo paesaggio frutto del secolare lavoro dell’uomo. Einaudi non fu un déraciné: ebbe la ventura di essere sepolto nella terra dove aveva vissuto le stagioni migliori della vita, dopo averla acquistata, indebitandosi, quasi settant’anni prima e costantemente ampliata, decennio dopo decennio.
Questo è l’aspetto che forse più colpisce nella mostra romana, con fotografie splendide e perfino attraverso la riproposizione del suo studio nella cascina di S. Giacomo. Ma questo è anche uno degli aspetti che più lo contrappone al “mercatismo” contemporaneo, che esige – avverte ancora Tremonti – «un tipo di pensiero globale uniforme: il ‘pensiero unico’» ed è perciò «intollerante a confini e barriere, differenze di pensiero e di consumo». Soprattutto esige che si vada oltre «le vecchie geografie, i vecchi differenziali accumulati dalla storia e stratificati nella matrice della tradizione, derivati dalle vecchie identità, originati dai retroterra arcaici e umorali, dalle riserve della memoria» (p. 34).
Nessuno come Alessandro Passerin d’Entrèves (non a caso, anche lui un liberale “a modo suo”) è riuscito a cogliere il legame organico di Einaudi con la terra e con la storia del Piemonte, e giustamente vi ha intravisto l’elemento ispiratore della sua concezione della storia non meno che della sua visione della vita: entrambe basate sull’idea che la “civiltà” sia un “patrimonio pazientemente accumulato col volgersi delle generazioni” e che l’ordinata convivenza di un popolo si basi sulla “fermezza dei caratteri e sulla sicurezza del domani” (Luigi Einaudi piemontese, 1974).
In questa prospettiva s’intende anche il rapporto di Einaudi con la religione dei suoi padri: non alludo tanto al suo sentimento religioso, quanto all’atteggiamento che – a suo giudizio – il liberale (ma preferiva parlare di “”uomo libero o “uomo amante di libertà”) doveva tenere rispetto al problema del ruolo pubblico della religione, in Italia essenzialmente quella cattolica. Ne tratta distesamente in uno scritto degli ultimi anni, quello che chiude il volume delle Prediche inutili, intitolato appunto Concludendo. Si tratta di un articolo comparso sul «Corriere della sera» del 18 gennaio 1959 (il contesto è importante): siamo all’indomani della vicenda del vescovo di Prato (mons. Fiordelli era stato al centro di un clamoroso caso giudiziario per aver definito – in base al diritto canonico – “pubblici concubini” due battezzati che si erano sposati solo civilmente), vicenda che aveva dato vita a una grande campagna laica e anticlericale da parte delle forze laico-socialiste e liberali. Il “consiglio” di Einaudi andava in tutt’altra direzione:
«i preti in chiesa ad insegnare religione, – il che vuol dire per taluno insegnare ai ragazzi a recitare il catechismo ed a servire messa; far prediche edificanti dal pulpito, amministrare i sacramenti, confessare, assistere e confortare gli ammalati, – non dice tutta quella che è la missione del sacerdote. Non mi attento neppure per un istante ad esporre il quadro compiuto di essa, come non oserò, voltando pagina, dichiarare i limiti della missione dell’insegnante. Dirò subito che, in regime di libertà, nessun limite è posto alla predicazione ed all’opera del sacerdote. La chiesa ed il suo sagrato sono la casa dei fedeli, dove questi vivono non solo la vita della fede, ma tutta la vita, quella dell’uomo intiero, che fra l’altro, è anche politica ed economica. Il sacerdote non può ignorare che i suoi fedeli vivono in una società, che essi non hanno solo doveri verso se stessi, verso il proprio perfezionamento morale e spirituale, e verso la famiglia, ossia verso la parte intima e riservata ed anche segreta di se stessi; e che perciò i sacerdoti non debbono limitare il loro compito di ammonimento a quel che tocca l’individuo e la sua famiglia. No; il sacerdote sa che i fedeli vivono in una società organizzata politicamente ed economicamente; sa che Cristo ha parlato e che i vangeli hanno registrato le parole dette da lui in non pochi casi della vita in comunità, che i dottori della chiesa hanno spiegato e commentato l’insegnamento del Cristo. Il sacerdote ha perciò l’obbligo di parlare, di consigliare i fedeli, di ammonirli sulle sanzioni spirituali di penitenza e di scomunica nelle quali essi necessariamente, se anche non sempre per condanna esplicita, incorreranno violando i comandamenti del vangelo. Forseché i grandi predicatori, da sant’Agostino a sant’Ambrogio, da santa Caterina a san Bernardino da Siena non parlarono a papi, ad imperatori, a re, a principi, a reggitori di città, a mercanti e ad artigiani, a religiosi ed a laici; non presero di petto le loro colpe, pubbliche e private, non condannarono pubblicamente i loro errori, quelli teologici, quelli politici pubblici e quelli privati? Naturalmente, il sacerdote non conosce solo la virtù della carità, che è azione viva ed operosa; conosce anche il dovere della ‘prudenza’. […] Usare ‘prudenza’ è lecito e può essere doveroso. Non è dovere assoluto; ed il sacerdote ha ragione in talune circostanze di non essere prudente e di dire apertamente al colpevole che egli, per sua colpa, non appartiene alla comunità dei fedeli; che tanto e non più vuol dire essere ‘scomunicato’. Se, per non aver usato prudenza, egli incorrerà in qualche sanzione, civile o penale, prevista dalle leggi dello stato, il sacerdote subirà la sanzione in silenzio. Non perciò egli sarà persuaso di non aver fatto il suo dovere; che questo gli è dichiarato e imposto dalla legge del vangelo».
Mentre il “mercatismo” odierno è sostanzialmente ateo, o meglio adora – come abbiamo visto – una serie di nuove icone commerciali o mediatiche, il liberalismo di Luigi Einaudi riusciva ancora a concepire il ruolo del sentimento religioso nella vita dei popoli europei e il suo possibile rapporto con lo spirito di libertà.