Libertà religiosa, martiri cristiani e Europa dei diritti
14 Febbraio 2011
Perché un’Europa campione di tolleranza e libertà religiosa è reticente sulle sofferenze delle minoranze cristiane nei Vicino Oriente? Un incontro, promosso a Firenze da Scienza e Vita e da altre associazioni (Circolo dei Liberi-Magna Carta, MCL), ha posto la domanda. Di fronte ad una sala gremita (dato consolante per chi si curi della vitalità del nostro dibattito pubblico) sono stati esaminati tre nodi.
Il primo è costituito dalla storica ostilità opposta dalla laicità radicale, in Europa, alla presenza pubblica-politica delle tradizioni religiose, anzitutto della Chiesa cattolica. Questa ostilità guida spesso le politiche statali dei diritti (individuali) di libertà contro la religione della maggioranza. Il secondo nodo è rappresentato, all’opposto, dall’evidenza ‘laica’ che istituzioni e fondamenti della civiltà europea sono innervati dalla tradizione cristiana che, di conseguenza, viene difesa e promossa come valore da un’altra “laicità”, non giacobina, non eversiva delle nostre radici. Ma la voce laica debitrice del crociano “perché non possiamo non dirci cristiani” appare oggi meno influente. Il terzo nodo è l’Europa: di fronte all’attivismo comunitario a favore dei diritti di libertà, la stessa sensibilità mostrata dal Parlamento europeo per le persecuzioni cui sono periodicamente soggetti i cristiani nei paesi musulmani (l’ultima Raccomandazione è del 27 gennaio scorso) resta confinata in atti senza effetto, vista l’inerzia, in merito, del Consiglio, che solo ha peso nelle relazioni con paesi terzi. Così, sommariamente riassunti, si sono mossi Maurizio Cotta, politologo, il senatore Paolo Amato, e Carlo Casini, in veste di parlamentare europeo.
Vorrei aggiungere che l’intensa attività legislativa e giurisprudenziale in materia di libertà religiosa, accompagnata dal silenzio politico dei suoi organi esecutivi su ‘materie cristiane’, non è un segnale contingente né, anzitutto, un portato di irresolutezza dell’Europa comunitaria. In tema di religioni il sistema istituzionale della Comunità appare una costellazione di organi e istanze che, pur nella specializzazione o autonomia funzionale, convergono ideologicamente. I ceti comunitari ‘di governo’ tentano con atti positivi e negativi di indebolire il peso civile delle chiese cristiane, di quelle almeno che non sono divenute presenze esornative, come non lo è la Chiesa cattolica. Inutile rievocare gli ‘sgarbi’ a Giovanni Paolo II, la mancata menzione delle radici cristiane nel preambolo del vecchio progetto di Costituzione, o la sentenza CEDU sul caso Lautsi (2009), relativa al Crocifisso, contro la quale l’Italia ha presentato ricorso. Inutile, perché sono solo emergenze di una erosione ordinaria, che si avvale degli innumerevoli canali dell’intervento comunitario, dalle politiche sanitarie alle fiscali.
Più interessante segnalare come la laicità radicale, col il suo polo operativamente più efficace, la cultura giuridica (di costituzionalisti ed ecclesiasticisti) e le sentenze delle Corti, costituisca con il mondo musulmano e la chiesa cattolica un ‘triangolo’, e una partita a tre, esemplare per lo studioso di strategie politico-istituzionali, quanto portatrice di ‘effetti perversi’. Nel variare delle alleanze, secondo la logica prevalente del ‘nemico del mio nemico è mio amico’, una ne affiora periodicamente tra la laicità radicale nelle istituzioni, più che delle istituzioni, e soggetti musulmani diversi. Un’alleanza contro i ‘privilegi’ della Chiesa, contro “il protettorato cattolico sulla società civile”. Un fronte laico che nelle istituzioni ha il potere di assegnare i beni scarsi, ovvero che – operando in organi dello stato o della Comunità europea- decide e obbliga, sembra contare sull’Islam. È ‘realismo’, non filo-islamismo: si conta sul peso della mera presenza dell’Islam e sugli effetti di contenimento della eredità cristiana derivanti dalla tutela dei diritti dei suoi membri (se non delle comunità).
Così un fronte di intelligencija, amministrazioni locali e giudici, favorisce, magari negandolo in principio, un multiculturalismo di fatto: il giurista lavora per uno “statuto costituzionale del non cittadino”, contro il fondamento identitario della cittadinanza; il funzionario esegue ma delegittima, contro l’opinione e l’esperienza del cittadino comune, i controlli di legge della presenza immigrata. Appena se ne dia l’occasione il fronte affianca la protesta contro i simboli religiosi cristiani e favorisce il ‘silenzio’ pro-islamico dei segni cristiani nelle scuole, nella cultura diffusa. In Europa spicca la ridicola vicenda dell’agenda 2009-2010 destinata alle scuole e priva delle ricorrenze cristiane, in cui la Comunità ha investito milioni di euro; sarebbe dignitoso che le scuole ricevendola la rimandassero al mittente.
Dato, dunque, l’obiettivo di un’Europa emancipata dal Cristianesimo (che solo i musulmani ingenui possono ritenere favorevole all’Islam), il prevalente silenzio europeo, dagli organi politici della Comunità alla stampa, sulle minoranze cristiane in pericolo, appare solo un corollario.
Si è detto nel dibattito che alle élites europee alzare la voce per i Cristiani, o solo parlarne, sembra “di cattivo gusto”. Ma anche (Paolo Amato) che il “buon gusto” conseguente avrebbe minori effetti distruttivi se le Chiese avessero più coraggio, Non è anzitutto ai cleri e ai laicati cattolici ‘evoluti’ che sembra, in Europa, di “cattivo gusto” evocare i martiri cristiani nigeriani o iracheni o egiziani? Martiri sono infatti (ricordava efficacemente Casini) uomini e donne uccisi perché sorpresi a praticare pubblicamente, cioè colti nella dimensione esplicita, “confessante”, della loro fede. Questi martiri di tutti gli Europei, sia chiaro, sono certamente imbarazzanti; costringerebbero a interrompere la fuga degli Europei, dopo la seconda Guerra Mondiale, dalla responsabilità di esistere. Una responsabilità cementata di realismo. Tutt’altra cosa dall’ubriacatura estemporanea dei commentatori per le “rivoluzioni” del Maghreb, mentre un vate celebra (sulla Stampa) “la speranza che viene dall’Egitto”.
Il dibattito ha evocato anche il tema della reciprocità tra Europa e Islam sovranazionale in materia di libertà religiose. Di recente il Rettore emerito del PISAI, il Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamici, ha sostenuto che uno stato musulmano non può pretendere da altri stati la libertà religiosa per i suoi cittadini immigrati quando non è disposto ad offrirla alle minoranze non islamiche che sono sul suo territorio. Ora, i nostri ordinamenti garantiscono a tutti, secondo la civiltà giuridica dell’Occidente, una essenziale libertà religiosa, senza ‘contropartita’ se non il rispetto delle leggi; ma ogni ‘riconoscimento’ che oltrepassi questa soglia va negoziato. La partita di opportunistiche alleanze, spesso a valenza anticattolica, con il mondo musulmano è un gioco pericoloso, condotto da élites europee senza sguardo politico, singolarmente cieche su se stesse e sul cosiddetto Altro.
I sommovimenti sociali e istituzionali in corso nei paesi arabi sarebbero, invece, l’occasione per scambiare un eventuale consenso (e sostegno) ai nuovi governi, con garanzie e impegni formali anche in materia di libertà religiosa delle comunità non islamiche. Stare a vedere, giocare di rimessa solo per evitare danni agli interessi nazionali ed europei, è assenza di visione, anzi di realismo. Chi abbia memoria o nozione dell’ultimo mezzo secolo di storia politica dei paesi musulmani, si domanda da quale mondo di sogno provenga l’idea che le rivolte condotte in nome della libertà sono perciò portatrici di libertà. Una spiegazione sta, forse, nel carattere infantile della nostra lotta politica interna (‘facciamo in Italia come al Cairo’!). Sarebbe lungimirante capire che i cristiani del Vicino Oriente, i cattolici, i copti (eredi di un’Africa cristiana e ‘europea’, di quella Europa che è l’impero romano-cristiano prima della conquista araba) sono parte di noi e come tali sono nel cuore di ogni negoziato con futuri partners del sud del Mediterraneo. Sarebbe anche il perno simbolico di una svolta.