L’identità della Chiesa e il Magistero di Benedetto

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L’identità della Chiesa e il Magistero di Benedetto

L’identità della Chiesa e il Magistero di Benedetto

11 Luglio 2007

di Pietro De Marco

Negli ultimi atti di governo di Benedetto XVI, la
lettera motu proprio data del 7
luglio sul Messale romano, ed ancor più i Responsa
(diffusi oggi) della Congregazione per la Dottrina della Fede in materia
ecclesiologica, si conferma il taglio inconfondibile del programma di Benedetto
XVI, ormai in atto. La sua profonda visione strategica intende operare ad
integrazione-compimento del magistero di Giovanni Paolo II, con quelle
caratteristiche di fermo discernimento sui temi della verità e della ragione
che il card. Ratzinger aveva praticato come prefetto della Congregazione, di
fronte alle derive teologiche interne alla Chiesa. Chi consulti la sezione Documenti di carattere dottrinale della
Congregazione sul sito del Vaticano, troverà analisi critiche esemplari di
opere dottrinali sottoposte nei decenni al suo vaglio; e scoprirà tutta la
profonda serietà che Roma ha posseduto nella tutela e trasmissione del
patrimonio rivelato in anni in cui utopie, outrances
e deliri sembravano poterlo travolgere.

 

Si trattava per Joseph Ratzinger, come si tratta
oggi per Benedetto XVI, di assumersi il rischio dialogico di dire opportune et importune l’errore, quando
dottrine e “esperienze” oltrepassino soglie estreme di tollerabilità.  Come ho scritto su loccidentale ad altro
proposito, lo spazio della condotta dialogica ha comunque i suoi confini, e ciò è richiesto dalla logica stessa del
dialogo. Anzi  vincoli e confini sono
condizione della sua sensatezza: senza vincoli di accettabilità dell’Altro che
si impongano simmetricamente ai protagonisti, si dissolve la ratio del dialogo e ogni suo risultato
diviene in sé indifferente.

Il metodo di Benedetto prende corpo nella volontà di
non evitare la pars critica entro il
rapporto dialogico; ossia nel mantenere il dialogo sotto l’ossequio della
verità.  Così, deliberatamente, verso
l’Islam; così entro la Chiesa.

Ora, le Risposte
a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla chiesa

pubblicate a firma del Prefetto card.William Levada e dell’Arcivescovo
segretario, mons. Angelo Amato, arricchiscono drammaticamente il dialogo
ecumenico di un promemoria di verità che forse si andavano dimenticando, anche
da parte cattolica. Affermano, su base conciliare, i Responsa: la Chiesa di Cristo, in
quanto
unità e complexio di tutti
gli elementi istituiti da Cristo stesso, sussiste
autenticamente e solo  nella Chiesa
cattolica. I gradi di distanziamento delle altre confessioni cristiane da tale
integrità e unità possono variare, senza che in loro sia impedita la santità;
ma la condizione di separatezza denuncia comunque in esse una carenza, talora
molto grave, della forma plenaria della Ecclesia
Christi

Si badi che l’istituzione autenticamente posta in e
da Cristo ha poco a che spartire con i brandelli della figura di Gesù e della
organizzazione delle primitive comunità cristiana che la “critica” moderna
ritiene di “ricostruire”. Solo l’analogia della Fede (la struttura portante
della Tradizione) conosce la costituzione in e da Cristo.

A partire dal Concilio, Lumen Gentium 8,2 , scrive la Congregazione: “La parola “sussiste”
può essere attribuita esclusivamente alla sola Chiesa cattolica”. Una formula
complessa, di sviluppo e approfondimento, ma in continuità  con la dottrina costante: “nulla veramente
cambia”, “doctrina tradita ullo modo immutata est”, ricorda la prima delle Risposte. Non andava detto? E per
utilità di chi o di cosa?  Non certo
della nostra chiarezza (cattolica) a noi stessi. Cosa rischia di essere,
infatti, la “fedeltà al Concilio” invocata ancora oggi dalla declamazione
antiromana se non l’occultamento di gran parte del corpus conciliare a
vantaggio di un prontuario di esortazioni “liberanti” che sempre si agita?

Concludono le Risposte
della Congregazione: vi sono “comunità”, anche grandi comunità aggiungo, che
“non hanno la successione apostolica nel sacramento
dell’ordine, e perciò sono prive di un elemento costitutivo essenziale
dell’essere Chiesa.  Le suddette Comunità
ecclesiali che, “specialmente a causa della mancanza di sacerdozio
ministeriale, non hanno conservato la genuina e integra sostanza del Mistero
eucaristico” (Unitatis redintegratio,
22.3 – ancora un testo conciliare), non possono, secondo la dottrina cattolica,
essere chiamate “Chiese” in senso proprio”. Questa franchezza o parrhesia, ben intelligibile entro la
tradizione cristiana, concerne non l’Ortodossia, bensì il mondo della Riforma
protestante.

Non andava detto? Certo; d’altronde a chi importa
della successione apostolica o del sacerdozio ministeriale? Nella cultura
religiosa diffusa, anche del clero, questi “fatti” (mi si perdoni il deliberato
fisicismo teologico), che pure reggono l’edificio cattolico e la sua pienezza,
vengono accantonati perché ignorati, o occultati perché disturbanti.  Ma, rispetto al problema ecumenico che verrà
invocato con scandalo, emerge allora, dominante (e primaria), la questione
della nostra stessa formazione alla fede; e senza l’orizzonte della fede che la
Chiesa propone a credere (fides quae
creditur
) il resto è orpello. Benedetto XVI che si prende cura del gregge
nel pericolo è, dunque, anche grande catechista.