L’identità nazionale è cosa seria. Non basta una Costituzione a garantirla

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L’identità nazionale è cosa seria. Non basta una Costituzione a garantirla

10 Novembre 2009

Un nuovo fantasma si aggira per l’Italia: il “ patriottismo costituzionale”. Dalla proposta finiana di introdurre l’esame di Costituzione per gli aspiranti cittadini, alla decisione della Gelmini di sostituire l’insegnamento dell’educazione civica con il ben diverso insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione”, è tutto un fiorire di proposte che puntano a rilanciare la funzione identitaria della nostra Carta fondamentale.

Si tratta di una sfida insidiosa perché se da un lato siamo convinti che la valorizzazione delle radici culturali e morali sia elemento essenziale per una società libera (in quanto consapevole della propria identità) dall’altro ci viene il timore che la strategia di esaltazione della Costituzione in realtà conduca ad esiti esattamente opposti a quelli annunciati.

Il problema non è tanto la Costituzione in sé e per sé. Certo alcuni aspetti del testo del 1948 non ci convincono del tutto. Siamo consapevoli che quel testo fu il frutto di un faticoso compromesso fra l’anima cattolica e quella social-comunista subito dopo la fine della II guerra mondiale e la caduta del fascismo, un compromesso che lasciò assai pochi spazi alle idee liberali pur autorevolmente rappresentate in Assemblea costituente. Certo sarebbe bello veder cambiate alcune norme  della seconda parte della Costituzione, quelle – proprio in nome di quel compromesso politico – che hanno bloccato per decenni la forma di governo del Paese in un modello assembleare e consociativo.

Ma non è questo il punto. Il fatto è che a nostro avviso l’identità di una nazione è una cosa seria. Una cosa che affonda le proprie radice ben più in profondità rispetto al testo di una legge, per quanto autorevole. Nella nostra idea la Costituzione non fonda un’identità nazionale. Nella migliore delle ipotesi la recepisce. Ed allora l’impressione è che tutto questo agitarsi intorno alla Costituzione da l’impressione di essere semplicemente strumentale  per coprire il vuoto che si registra sul versante dei valori profondi che connotano una comunità. La Costituzione come surrogato dell’identità nazionale. Ma in questo modo si rischia di avallare una concezione puramente procedurale della democrazia. Una concezione “kelseniana” sulla base della quale qualunque decisione – purché rispettosa delle procedure costituzionali – sia legittima e sia idonea ad entrare nel patrimonio culturale del Paese.

Vogliamo riconoscere giuridicamente i matrimoni fra omosessuali? Vogliamo rimuovere i crocifissi dagli uffici pubblici e dalle aule di scuola? Vogliamo legittimare l’eutanasia? Vogliamo sperimentare l’ingegneria genetica e la clonazione? Bene. E’ tutto possibile. Basta farlo in modo rispettoso della Costituzione! Ma valori costituzionali profondi sono proprio quelli che pongono dei limiti alla “onnipotenza” del legislatore ed quella, ancora più pericolosa, dei giudici. Sono i valori dell’inviolabilità della persona e della vita, della libertà (e non della licenza) dell’individuo, della socialità senza socialismo.

Occorre però riconoscere che, dopo quarant’anni di egemonia culturale, la sinistra è riuscita a sovvertire il significato vero della nostra Carta: la Costituzione come “rivoluzione promessa”, la Costituzione tradita, la Costituzione come fondamento di tutte le derive democraticistiche, laiciste e fondamentaliste.

Nei paesi evoluti quello alla Costituzione (che in quello più evoluto nemmeno esiste) è poco più che un omaggio rituale perché il collante della nazione sono i valori condivisi dalla comunità. In Italia rischia di diventare l’ennesimo episodio della endemica guerra civile che va avanti da qualche secolo. In Italia abbiamo potuto vedere un ex Presidente della Repubblica guidare una manifestazione a difesa della Costituzione pensata come tentativo di abbattere un Presidente del Consiglio legittimamente eletto dal popolo!

Quando poi questa deriva retorica e strumentale sbarca fra i banchi di scuola, ci troviamo di fronte all’apoteosi del pedagogismo di sinistra che già tanti danni ha inferto al nostro sistema scolastico. E’ l’idea che la scuola debba formare il buon cittadino. L’idea che la scuola non debba trasmettere saperi (le aborrite nozioni) ma educare, non debba informare ma debba formare. Ma questa prospettiva oltre ad essere aberrante in una logica liberale, è anche del tutto velleitaria. Un approccio maoista presuppone naturalmente un ferreo controllo dello Stato su tutte le forme di comunicazione della società civile. Controllo che oggi (per nostra fortuna) non c’è e non può esserci. Quanti del resto ricordano come memorabili le lezioni di educazione civica? Perché sorte migliore dovrebbe toccare a quelle su Cittadinanza e Costituzione?

Ed allora tutta la retorica del pedagogismo progressista produce al massimo la moltiplicazione di modeste rendite in favore di quel ceto sociale parassitario che governa le attività di formazione di impostazione didattica del buon insegnante democratico. Se fosse solo questo non ci sarebbe molto da preoccuparsi. Il fatto è che la scomparsa dei saperi, l’eliminazione del merito, la soppressione della selezione, ha finito semplicemente per produrre il decadimento qualitativo della scuola, l’ignoranza crescente fra i nostri ragazzi e la loro difficoltà a competere in un mercato del lavoro sempre più globalizzato.