L’Idv mischia (e confonde) i dati della Manovra col ritorno al nucleare

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L’Idv mischia (e confonde) i dati della Manovra col ritorno al nucleare

31 Maggio 2010

In tempi di manovra le cifre si rincorrono e si confrontano, anche quando non hanno alcun nesso tra loro. Capita così che l’Italia dei Valori, impegnata dal 9 aprile scorso nella raccolta delle firme per la richiesta di un referendum abrogativo in materia nucleare, in un articolo del suo sito internet di venerdì scorso accosti i 24 miliardi della manovra finanziaria ai 30 miliardi di investimenti sul nucleare necessari al raggiungimento dell’obiettivo posto da Governo, ossia la copertura del 25% del fabbisogno energetico con il ricorso al nucleare.

I dati sono stati elaborati da Confindustria con tutt’altra finalità: dimostrare che il nucleare è un affare per l’industria italiana, capace di creare un indotto appetibile per un comparto più esteso.

Da qualsiasi punto si guardi a questi dati, non si traggono indicazioni utili per la politica.

In primo luogo, l’ammontare degli investimenti privati nel settore dell’energia ha poco a che vedere con i tagli alla spesa pubblica. La manovra, infatti, contiene misure utili a rimettere in sesto la finanza pubblica. Gli investimenti nel settore nucleare, invece, rappresentano previsioni sui comportamenti di operatori privati. L’idea veicolata dal sito referendario, di per sé fuorviante, è che lo stato taglia da un lato le voci di spesa per regioni, enti locali ed il pubblico impiego, ma trova il denaro per investire sul nucleare.

Peggio, si dice espressamente: “Il nucleare made in Italy costerà ai contribuenti 30 miliardi di euro”. Nulla di più sbagliato. Una strategia di comunicazione pubblica che fa leva, in buona o cattiva fede, sulla tradizionale impostazione statalista delle politiche industriali del nostro paese, che vede in ogni fenomeno economico il corollario delle decisioni pubbliche attuate dall’alto. In realtà il Governo ha finora escluso misure di finanziamento pubblico al nucleare. Il capitale, se ci credono, lo metteranno le imprese. I benefici in termini di prezzi più bassi dell’energia, quelli sì, saranno diffusi.

Quanto poi alla fondatezza dei numeri dati da Confindustria, c’è da fare una premessa: la cifra rappresenta solo il versante finanziario di uno scenario dipinto dall’esecutivo, che mira ad un mix energetico composto per un quarto del totale da energia da fonte nucleare.

Da un punto di vista tecnico, la quota di mercato cui può ambire l’atomo coincide con la domanda di baseload, ossia il fabbisogno costante, pari a circa il 40-50% dell’energia richiesta in coincidenza dei picchi di domanda.

Il motivo è semplice. La tecnologia è caratterizzata da alti costi fissi (la costruzione dell’impianto) e costi variabili decisamente bassi e competitivi, oltre che da una difficoltà tecnica a interrompere e riprendere per brevi lassi di tempo il ciclo di combustione (e la produzione). Quindi, un impianto nucleare è senz’altro conveniente purché il suo esercizio sia costante e ininterrotto.

Altri fattori orienteranno poi gli operatori privati, a partire dalle previsioni sul prezzo futuro dei combustibili fossili: se il costo di approvvigionamento di gas e petrolio aumenterà, il nucleare sarà evidentemente più competitivo e preferito dai produttori per i nuovi impianti. Ma le imprese dovranno anche considerare i tempi di vita dell’attuale parco produttivo, in modo da sostituire gli impianti esistenti prima di accumulare nuova potenza a quella già installata e ovviamente determineranno le proprie preferenze intertemporali, dati i tempi particolarmente lunghi di realizzazione di una centrale.

Paradossalmente, proprio sul sito referendario dell’Italia dei Valori, si prospetta come massimo obiettivo la copertura dell’8% del fabbisogno energetico. A tanto si potrebbe arrivare con la messa in esercizio delle prime quattro centrali nucleari.

Il capitale da impegnare sarebbe conseguentemente minore. Anche un 8% di nucleare sarebbe comunque un passo in avanti, in un paese fortemente sbilanciato sul lato dei combustibili fossili (l’80% dell’energia prodotta è ricavata dalla combustione di gas e petrolio) e che paga i prezzi dell’energia più alti in Europa.