L’illusione della legge elettorale
13 Aprile 2012
L’Italia vive in quest’ultimo anno una crisi simile a quella di vent’anni fa. Nel 1993 le tensioni sulla Lira e la delegittimazione della politica determinata dalle inchieste giudiziarie imposero prima una finanziaria lacrime e sangue da parte del governo Amato e quindi il primo governo “tecnico” guidato dall’allora governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. Oggi le tensioni sull’euro e una analoga delegittimazione della politica ha imposto un governo di soli tecnici, guidato dal Professor Mario Monti, scelto perché espressione delle istituzioni europee e quindi della Banca Centrale Europea.
Allora la politica rispose alla crisi in un modo analogo a quello con cui reagisce oggi: ristrutturare il sistema politico attraverso la riforma elettorale, anche sotto la spinta di due referendum, quello del 1993 che fu un plebiscito e quello di quest’anno giudicato inammissibile dalla Consulta, ma che aveva raccolto una grande quantità di sottoscrizioni. Le due riforme vanno in direzioni opposte, eppure si ripropongono lo stesso obbiettivo: rendere più trasparente e meno inquinata la politica, più stabili e governi e dare lo scettro al popolo nelle scelte.
Le riforme del 1993 e del 2006 puntavano a una democrazia maggioritaria, dove con il voto si scelgono premier, programma e coalizione, dando loro un mandato di cinque anni per realizzare la promessa elettorale.
La storia ha dimostrato che la via elettorale era insufficiente a realizzare quegli obbiettivi: i premier, le maggioranze e i governi usciti dalle urne nel 1994, 1996, 2001, 2006 e 2008 sono caduti in corso d’opera a causa di una rottura della loro maggioranza provocata da una minoranza della maggioranza. Un fatto accaduto anche nelle due legislature giunte a scadenza naturale, la 1996-2001 e la 2001-2006 e che ha concorso alla mancata realizzazione dei programmi elettorali.
La riforma abbozzata oggi rovescia gli obbiettivi, annullando la formazione delle coalizioni prima delle elezioni, e di conseguenza la scelta del premier e del programma di governo. Che saranno il frutto della successiva mediazione parlamentare, forse nella convinzione che il ruolo dei partiti sia quello di sostenere con maggioranze “strane” governi tecnici per guadagnare il tempo necessario a riconquistare la credibilità perduta.
L’errore di ieri si ripercorre oggi. Quello che occorre sul piano istituzionale non è una nuova legge elettorale, ma una nuova Costituzione che restituisca lo scettro agli elettori, rendendo impossibile che le minoranze delle maggioranze possano far cadere i governi. E che il problema non riguardi le coalizioni lo dimostra il fatto che il governo Berlusconi del 2008 è stato azzoppato da una scissione del partito del premier, non da una rottura del patto di coalizione. Quello che è necessario è quello che ha funzionato nei Comuni, nelle Province e nelle Regioni: elezione diretta del capo dell’esecutivo, pieno potere di nomina e revoca degli assessori e, sopratutto, potere di scioglimento dei consigli, l’unica arma in grado di evitare che dal giorno successivo alla nascita dei governi piccole minoranze si adoperino per farli cadere o per conquistarne la golden share, il potere di veto.
Non si capisce perché la Costituzione italiana consideri gli elettori capaci di eleggere il Sindaco, il Presidente della Provincia e quello della Regione, ma non il Primo Ministro.
Il primo dei problemi della politica, però, è l’offerta che che i partiti fanno agli elettori.
I fondamentali della crisi economica italiana di oggi sono gli stessi di ieri: troppo debito, troppa spesa, troppe tasse. E se fino ad oggi non si sono nemmeno affrontati, nonostante che una forza politica, Forza Italia, sia nata con una ricetta liberale, il motivo deriva dal fatto che i partiti italiani sono confusi e incoerenti. Essi si illudono di diventare grandi in dimensione cercando di dare rappresentanza ad interessi contrapposti e sono formati da un mix di liberali e di statalisti o keynesiani che li paralizza e che li priva di identità. Oggi nessuno sa come Pdl e Pd vogliono affrontare quei tre problemi perché al loro interno le rappresentanze degli interessi sono confuse. E questo fatto, invece di accrescerne le dimensioni, rompe il patto fiduciario. Se il Pdl è passato dal 38% del 2008 al 20% di cui lo accreditano i sondaggi è perché ha promesso meno tasse, meno spesa pubblica e meno debito e non ha fatto nulla di tutto questo, tolta l’abolizione della tassa sulla prima casa. La politica riacquisterà credibilità solo quando saprà dividersi tra chi propone soluzioni liberali e chi propone soluzioni keynesiane. E chi vincerà le elezioni avrà la capacità di realizzare i propri programmi vincendo le resistenze, invece che assecondarle.
Qualcuno aveva riposto questa speranza sul governo Monti, vista l’emergenza della situazione e l’ampiezza del sostegno politico da parte di partiti impauriti da eventuali elezioni. La vicenda della riforma del mercato del lavoro, dove il governo ha capitolato alla Cgil, nonostante Monti abbia di fatto il potere di sciogliere le Camere, dimostra che o il consenso si fonda su programmi non equivoci dove si rappresentano apertamente interessi legittimi e si contrastano altrettanto apertamente interessi altrettanto legittimi, oppure la tirannia dello status quo in cui la politica italiana vive da almeno vent’anni non cesserà con una riforma elettorale.