L’imbroglio a fin di bene dell’Arcangelo mette d’accordo tutti i palati
07 Febbraio 2010
Sai che là corre il mondo ove piú versi
di sue dolcezze il lusinghier Parnaso,
e che ‘l vero, condito in molli versi,
i piú schivi allettando ha persuaso.
Cosí a l’egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannato intanto ei beve,
e da l’inganno suo vita riceve.
Durante una recente visita all’ottimo ristorante romano L’Arcangelo, collocato nel cuore del quartiere Prati, quasi all’ombra dell’ingente mole del palazzo ove ha sede la Corte di Cassazione, dall’archeologia della memoria ginnasiale è riemersa, non so davvero come, l’ottava sopra riportata. Si tratta, come molti lettori avranno già colto, dei versi quasi iniziali del primo canto della Gerusalemme Liberata, con i quali Torquato Tasso conferisce elegante dignità poetica all’inganno “a fin di bene”. In effetti, mi sembra che essi si attaglino perfettamente a descrivere il tranello teso agli avventori di questo locale, allorquando ne compulsano il menù, tranello in cui caddi regolarmente anch’io, la prima volta che ebbi la fortunata ventura di capitarvici.
Leggendo, ad esempio, a proposito di hors d’oeuvre, di un piatto denominato “Fiumè: animelle, aringhe e buondì Motta” o di un altro chiamato “Ritorno al lago Regillo: coniglio fritto dorato, fette biscottate, cavolfiore e polline”, si acquisisce la netta convinzione di essere capitati in un ristorante di nouvelle cuisine “estrema”. Questa circostanza riesce a rallegrare la maggior parte dei clienti, seguaci, ahimè, dico io, delle mode gastronomiche dei nostri tempi superficiali e, per contro, gela i succhi gastrici ai pochi vecchi tromboni che, come me, sono sempre alla ricerca “dell’oste perduto”, dei sapori genuini offerti dalle migliori materie prime, trattate come la sapienza della tradizione insegna.
Ebbene, si tratta di un imbroglio ben architettato: è sufficiente assaggiare uno dei piatti dalla denominazione strampalata per ritrovare, nella sostanza, dei piccoli capolavori dell’arte culinaria tradizionale, confezionati con materie prime scelte con estrema cura, unita ad una quasi maniacale attenzione esecutiva, volta ad esaltare ed a preservare i sapori dei cibi.
Dall’inganno così sapientemente ordito scaturisce un bene per tutti: i modaioli sono lieti di trovarsi in un posto apparentemente à la page (che, però, riesce ad educarne il palato) ed i conservatori assaporano dei manicaretti inaspettati, oltretutto confortati dalla gioia dello scampato pericolo. Tra l’altro, i piatti serviti, innovativi nella denominazione ma “classici” nella preparazione, sono in assoluta sintonia con l’ambiente in cui è collocato il ristorante.
In effetti le due piccole sale di questo recente locale, con le pareti fasciate da una vecchia, calda ed elegante boiserie – con la quale, tuttavia, non legano i due divani in pelle capitonnè, di colore bordeaux scuro, da club inglese, posti accanto all’ingresso – denunciano un ortodosso ed onesto passato di bottiglieria o di trattoria. Mi sembra, ma non ci giurerei, d’essere stato proprio qui, troppi anni or sono, con una compagnia di illustri e facondi avvocati, per sbrigare una pratica a base di rigatoni con pajata e vino rosso, ma nelle strade intorno alla Cassazione di locali old fashion, tra loro molto simili, ancora negli anni ‘70 ve ne erano parecchi ed è facile confondersi.
Come dicevo, con l’ambiente non risulta in sintonia solamente – sarebbe un fatto scontato – il “Degusta Roma”, il suggerito percorso di degustazione fisso, composto di piatti storici della cucina capitolina, ma anche diverse altre proposte della carta, combinabili in un percorso a libera scelta dell’avventore. Si prenda il piatto di aliciotti, collocato tra i secondi, consistente in una torta di acciughe appoggiata su scarola, con pangrattato, uva passa e pinoli, una preparazione tradizionale, direi siculeggiante, alquanto saporita. Non meno classici sono il filetto di bue piemontese, proposto sì nella depistante descrizione, con accompagnamento di “leggero dolceforte di cacao e purea di patate e zafferano”, ma, nei fatti, uno dei più gustosi e schietti piatti di carne “vera”, che sia dato trovare a Roma (parola di piemontese carnivoro convinto), o la zuppa inglese e crema inglese – nell’iterazione dell’aggettivo sospetto una strizzata d’occhio a Ionesco della Cantatrice calva – un perfetto dolce della nonna, o i rigatoni di Verrigni, vuoi alla matriciana, vuoi alla carbonara, due primi confezionati con perizia d’altri tempi, tanto per fare un po’ di zapping nel menù.
Ricordata la presenza di una seria e valida proposta di formaggi (una rarità per Roma), tralascio di citare altri piatti, per non togliere al lettore il piacere della scoperta, tra gli “inganni” funambolici delle denominazioni . Non posso, tuttavia, non segnalare ancora la presenza di una piccola carta del foie gras, che, denunciando anche una qualche (gradevole) ascendenza di cultura transalpina del locale, non mancherà di deliziare i golosi cultori della materia.
Il servizio è cortese e competente e la cantina ben calibrata, con etichette di vario peso economico, ma sempre con ricarichi più che contenuti. Il locale si colloca in una fascia di costo medio-ragionevole (moltissimo dipende dal vino che si sceglie), con un rapporto qualità/prezzo senz’altro ottimo. Un’avvertenza finale: il posto è minuscolo e per fissarvi una prenotazione occorre una buona dose di perseveranza telefonica.
L’Arcangelo – Roma Via G. G. Belli, 59 – 61 Telefono 06/3210992 – Chiuso domenica e sabato a pranzo.