L’insostenibile leggerezza di Veltroni

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L’insostenibile leggerezza di Veltroni

18 Ottobre 2017

Veltroni non ti delude mai. “Sinistra, è un’idea del mondo e della giustizia, cambiata nel tempo come è dovere farlo, la sinistra ci ha messo troppo a capire che libertà e giustizia non sono separate. Sinistra è libertà, per me sinistra era quel ragazzo cinese con le buste della spesa e non il carro armato”. Così il sito della Repubblica il 14 ottobre riporta le parole di Walter Veltroni all’incontro per il decennale della fondazione del Partito democratico. E’ bello essere confortato nelle proprie convinzioni, come per esempio quella che dall’ex sindaco di Roma non potrà mai venire se non una parola retorica, un’idea inconsistente, uno schivare le analisi invece che approfondirle. Ed è interessante notare come certe tendenze siano addirittura secolari. Scriveva Francesco Guicciardini nei suoi Ricordi tra il 1512 e il 1530: “Non credo che sia che sia peggior cosa al mondo che la leggerezza, perché gli uomini leggieri sono istrumenti atti a pigliar ogni partito, per tristo, pericoloso e pernicioso che sia: però fuggitegli come il fuoco”. Un’ultima annotazione. La “leggerezza” di Veltroni (intrecciandosi all’arroganza di Matteo Renzi “chi se ne va tradisce”) fa persino risaltare il pensiero di uno come Gianni Cuperlo quando dice (Repubblica del 15 ottobre): Un partito nato per federare non è riuscito a tenere insieme se stesso. Risolvere il tema parlando di tradimento non è la risposta”. 

Giavazzando: responsabilità pesanti come montagne e responsabilità leggere come piume. “Pur in presenza di gravi crisi, che hanno portato al fallimento di alcuni istituti e alla nazionalizzazione di altri”.  Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 18 ottobre non si capacita della mozione del Pd che critica un governatore della Banca d’Italia che pure ha cavalcato con tanta sapienza le crisi di questo decennio. Il problema è che in via Nazionale le crisi si dovrebbero prevedere, non solo cavalcare. Magari il metodo renziano su tutta la vicenda Visco “non ha precedenti nella storia repubblicana”, come scrive Massimo Giannini su Repubblica sempre del 18 (anche se i casi Paolo Baffi, Mario Sarcinelli e recentemente quello Antonio Fazio ci ricordano le asprezze degli scontri su Palazzo Koch) ed è comunque evidente tutta l’arroganza che il politico rignanese mette sempre nella lotta politica. D’altra parte la disgregazione dei sistemi di decisione democratica che si manifesta anche con il caso Visco non è prodotta dal renzismo bensì è causa di questo. E tra i genitori di questa crisi troviamo pure tutti gli opinionisti tipo Giavazzi estremamente severi in tante occasioni ma in altre languidi verso i gravi limiti di un certo establishment.

Quelli che vorrebbero una Cina particolarmente vicina. “From december 2012 to october 2017, 18 sitting Central commitee members – almost 9 per cent of the total – were detained for alleged corruption”. In occasione dell’XI congresso del Partito comunista cinese, Tom Mitchell sul Financial Times ricorda alcuni tratti della dura lotta per il potere che si è svolta e si sta svolgendo a Pechino e che ha visto il 9 per cento dei membri del Comitato centrale arrestati per corruzione (e poi anche decine di ministri, generali, e migliaia e migliaia di quadri e manager a vari livelli). Anche lo storico Carl Mizner sulla Repubblica sempre del 18 solleva un qualche allarme sulla sorta di dogma di infallibilità che Xi Jinping vuole ottenere dal congresso. “E’ un salto di qualità all’indietro che annulla 20, 30 anni di istituzionalizzazione”, scrive. Non mancano, però, gli ottimisti: Steven Lee Myers e Sui-Lee Wee sul New York Times sempre del 18 scrivono che “For years, the United States and others saw this sort of heavy-handed censorship as a sign of political vulnerability”. Per anni in Occidente si sarebbe considerata la dura censura cinese su Internet solo come un segno di un grave difetto politico; ora, pur al di là delle critiche legittime a certi aspetti illiberali della politica di Pechino, si coglierebbero e si apprezzerebbero anche le similitudini con la lotta alla pornografia e alle “fake news” in corso pure a Ovest. Esemplarmente elogiativo della politica di Xi (pur con qualche indispensabile distinguo di “copertura”) è anche Guido Santavecchi sul Corriere della Sera sempre del 18: “Con i suoi piani di riglobalizzazione e la proposta di nuova via della seta e nuova governance globale intanto si sta imponendo come uno statista capace di colmare il vuoto aperto da Trump”. L’analisi è un po’ approssimativa: di fatto, per esempio, il nemico della nuova “via della seta” non è stata l’amministrazione Trump bensì quella Obama (che litigò anche con Londra per le scelte inglesi filo Pechino) e che diede vita a un trattato commerciale interpacifico (Ttp) che isolava la Cina. L’approssimazione è elemento decisivo per accreditare senza remore il nuovo protagonista orientale, anche per l’Economist del 14 ottobre: “Unlike Vladimir Putin, Russia’s president, Mr Xi is not a global troublemaker who seeks to subvert democracy and destabilise the West”. Differentemente da Putin l’espansione dell’esercito di Xi sarebbe puramente difensiva e aliena da qualsiasi piano di sovvertimento della democrazia e di destabilizzazione dell’Occidente. Al fondo prevale in non pochi commentatori occidentali il desiderio irresistibile che Pechino possa assumere il ruolo del giocatore perfetto sulla scena internazionale, che stabilizza la pace, l’ambiente e l’economia. Ispirati da questo desiderio si nasconde così sia la corsa al riarmo, sia “l’uso” della Corea del Nord, sia la repressione-regressione autoritaria interna, sia le minacce ai vari “vicini”, sia certe politiche quasi neoschiavistiche in Africa. Si confonde la fondamentale esigenza di allargare rapporti culturali, politici e commerciali con Pechino, con quella altrettanto sacrosanta di maneggiare con cautela uno Stato radicalmente  autoritario-totalitario (altro che la povera Russia) che, fondando la parte essenziale della propria legittimità sull’esercito, può, se non attentamente e costantemente “osservato” dagli Stati liberaldemocratici, diventare particolarmente pericoloso.

Il nuovo governo Merkel? Forse sotto l’albero di Natale. “Asked whether the parties could work together, FDP deputy leader Wolfgang Kubicki told news magazine Der Spiegel: ‘It can succeed. The most important thing is that trust needs to be built between participants and that takes time. That’s why it would be illusory to believe we could conclude negotiations by Christmas.” Fabian Bimmer in articolo apparso il 13 ottobre sull’agenzia Reuters racconta come il vice leader dei Liberali tedeschi Kubicki ritenga che si debba lavorare con calma per creare un clima di fiducia e che quindi è improbabile che si faccia il previsto (e possibile secondo l’esponente del Fdp) governo democristiani, liberali e verdi, prima di Natale. Stefano Folli, intanto, sulla Repubblica del 15 ottobre, si lamenta che dopo un eventuale governo popolari – FPÖ in Austria, anche in Italia ci si possa avventurare “in un solco lontano dall’ortodossia incarnata da Angela Merkel” . Folli sia pure con tutta la sua intelligenza e garbo fa parte del club dei panglossisti merkelliani secondo i quali “tutto va bene nella più perfetta delle Europe possibili”. Eppure la loro papessa li ha portati in una situazione in cui in Olanda non si è ancora fatto un governo, in Spagna succede quel che succede, in Francia Emmanuel Macron (si è visto con il nuovo Senato) non riesce ad attrarre né socialisti né gollisti restando senza una base politica adeguata per governare il Paese. Ormai solo chi crede come Eugenio Scalfari, scambiando processi e procedure effettuali per i meccanismi che determinano la legittimità di un potere, che “la sovranità è affidata a pochi che operano e decidono nell’interesse dei molti” (così sulla Repubblica sempre del 15) può pensare di affidarsi al pragmatismo spesso abile ma quasi sempre senza una vera anima della Grande bottegaia di Berlino.