L’Iraq è di nuovo padrone del suo destino ma la vera sfida inizia adesso

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L’Iraq è di nuovo padrone del suo destino ma la vera sfida inizia adesso

02 Luglio 2009

Nonostante canti, balli, ghirlande di fiori che ricoprono i camion americani e addobbano le strade, nonostante le rassicuranti dichiarazioni ufficiali riguardo alla prontezza dell’esercito iracheno a rimpiazzare le truppe americane, nessuno sa veramente cosa accadrà in futuro, se il 30 giugno 2009 sarà per l’Iraq la data dell’inizio della pace, come ci auguriamo, o l’inizio ancora di un altro incubo.

La ritirata dei soldati americani dalle città, a segnalare il clima completamente cambiato, è avvenuta quasi in silenzio, senza le luci dei riflettori che fino a pochi mesi fa contraddistinguevano tutti gli eventi iracheni. E non è certo una coincidenza che sia stata battuta proprio ieri  la prima gara per lo sfruttamento di campi petroliferi, vinta da un consorzio anglo-cinese alla faccia dell’impegno delle compagnie americane, con buona pace degli irriducibili dietrologi che vedevano tra i motivi della guerra oscuri complotti delle multinazionali USA per il controllo del petrolio!

Il fatto che i soldati americani possano rispettare la tabella di marcia del ritiro è il segno della grande vittoria riportata dalla vecchia amministrazione Bush, dal Generale Petraeus e dai suoi consiglieri: è la prima volta che gli americani riescono a cambiare il decorso di una guerra asimmetrica che stava precipitando verso la tragedia e questo è un dato di fatto incontestabile anche dal sorridente Obama.

Dietro lasciano un paese con molte contraddizioni dove le notizie brutte accompagnano quelle positive come, nonostante i duecento morti negli attentati di questi giorni, la violenza sia scesa dal suo punto massimo del 60 per cento ed è ai livelli più bassi dal 2003; e che ora le forze di polizia assommino a 500.000 uomini e siano in grado di assicurare il controllo, secondo sempre fonti ufficiali, del 70 per cento del territorio. Non tutto però sta andando bene.

Al Qaida ha rialzato la testa compiendo un elevato numero di attentati e uccidendo anche il leader moderato Harith al-Ubaidi; le milizie scite filo iraniane hanno ripreso a colpire;  il piano di assorbimento delle milizie tribali sunnite, l’ossatura della surge, che hanno combattuto e vinto Al Qaida sta funzionando con il contagocce; in molte aree del paese il governo è in mano a signorotti locali e il potere centrale è sempre più visto come settario, schierato su posizioni filo-scite e infatti l’influenza iranianana nel paese sui partiti e sul governo è fortissima mentre la corruzione è presente in tutti gli apparati dello stato in modo impressionante.

La conclusione più importante è che però adesso il futuro degli iracheni è nelle mani di loro stessi e il 30 gennaio del 2010, quando si terranno le elezioni politiche, si vedrà quale strada il paese prenderà.

Quello che certo è che da ora in poi di quello che succederà nel paese non si potrà più dar la colpa agli stranieri infedeli. Ora è l’Iraq che deve scegliersi il suo futuro, che si deve decidere tra uno stato nazionale laico e uno religioso, tra federalismo e accentramento, tra tribalismi e democrazia rappresentativa.

Il fatto vero è che gli Stati Uniti si sono trovati a combattere più di una guerra allo stesso tempo, quella contro Saddam, contro Al Qaida, contro le milizie scite settarie, quella per l’affermazione della democrazia, quella per la creazione per uno stato non filo iraniano. Di tutte queste, gli strateghi americani avevano previsto solo la deposizione del tiranno e la lotta per la creazione di un regime democratico; il resto è stato tutto trovato. A questo punto possiamo dire che una guerra è stata vinta al 100 per cento, quella contro Saddam, la seconda contro Al Qaida  quasi del tutto; le altre due, quelle per la democrazia, per il tipo di stato e su che tipo di relazioni gli iracheni vogliano intessere con i loro vicini sono tornate nelle mani degli aventi diritto: gli iracheni. Solo loro possono decidere se vogliono vivere in un paese plurireligioso o finire nel caos della guerra tribale, civile e religiosa. 

Non si può chieder di più né ai generali americani, né ai teorici anti insorgenza, né al governo degli Stati Uniti: 5 anni di guerra e quattromila soldati morti sono già abbastanza anche per una potenza imperiale.