L’Irlanda va al referendum. E l’Europa trema

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L’Irlanda va al referendum. E l’Europa trema

10 Giugno 2008

L’Unione europea guarda con apprensione verso Dublino, trattiene il fiato e fa gli scongiuri in vista del voto referendario di giovedì 12 giugno. A tre anni di distanza dal «funesto» 29 maggio 2005», quando la Francia disse massicciamente «no» al Trattato costituzionale europeo (seguita a ruota dall’Olanda), i fantasmi del passato sembrano bussare nuovamente alla porta di Bruxelles.

Il Trattato di Lisbona, frutto del paziente lavoro di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, potrebbe infatti arenarsi di fronte al «no» irlandese, unico Paese dei 27 ad aver optato per la ratifica referendaria, anche perché così prevede la sua carta costituzionale. Il cammino delle ratifiche nazionali di quello che è stato meno prosaicamente definito «mini-trattato» ha già coinvolto più della metà dei Paesi membri e il via libera di Dublino significherebbe, anche simbolicamente, chiudere la lunga parentesi apertasi dopo il Trattato di Nizza del 2001. Da quel momento infatti l’Ue, deciso il più grande allargamento dello spazio europeo della loro storia, ha avviato un tormentato tentativo di riforma istituzionale, con il duplice intento di riuscire a governare un’Unione passata da 15 a 25 (poi 27) Stati e di darsi un ruolo di protagonismo internazionale in un contesto mutato rispetto all’equilibrio bipolare degli anni Cinquanta, ma anche al «momento unipolare» dell’immediato post Guerra fredda.

L’allarme è stato lanciato da un recente sondaggio comparso sull’«Irish Times». Il livello dei contrari alla ratifica del Trattato di Lisbona avrebbe per la prima volta superato quello dei cittadini disposti a votare «sì» (35% contro 30%), mentre la quota degli indecisi resta ancora massiccia (attorno al 30%). Anche se un successivo sondaggio di domenica per il «Business Post» ha parlato dei «si’» vincenti 42% contro 39%, su un punto tutti gli osservatori sembrano concordare: la vera partita riguarda il livello di partecipazione. Se gli irlandesi decideranno di presentarsi massicciamente alle urne giovedì 12 giugno, quasi certamente l’Ue potrà tirare un sospiro di sollievo. A preoccupare è il precedente del giugno del 2001, quando al 54% di «no» al Trattato di Nizza aveva contribuito l’altissimo livello di astensione. Nella replica dell’anno successivo, la vittoria dei «sì» era stata garantita dall’alta affluenza alle urne.

Senza trascurare le specificità nazionali, alcune caratteristiche della «dinamica di rigetto» in azione nel contesto irlandese ricordano in maniera pericolosa la situazione francese di tre anni fa. Oggi come allora è diffusa la sensazione del «complotto europeo». In Francia si parlò di «sindrome dell’idraulico polacco » e di Europa ultraliberale, portatrice di delocalizzazioni, dumping sociale e fine del modello sociale europeo. In Irlanda in queste ultime settimane sempre più insistenti si sono fatte le voci che parlano di un Trattato di Lisbona che imporrebbe al Paese l’energia nucleare, una tassazione sulle imprese molto più alta di quell’aliquota al 12,5% decisiva per il boom economico irlandese degli ultimi 15 anni, la fine della neutralità militare, l’introduzione dell’eutanasia e dell’aborto. In realtà nessuno di questi temi è sfiorato, perlomeno in questi termini, dal Trattato di Lisbona.

Altra grande affinità tra la retorica del «no» irlandese e quella del «no» francese del 2005 è costituita dal miraggio del cosiddetto «piano B». Chi sostiene la bocciatura del Trattato parla poi dell’apertura di un nuovo negoziato, dal quale l’Irlanda otterrà nuovi benefici. Una sorta di ricatto calcolato per garantire un ruolo maggiore al Paese nella Commissione, nella ponderazione del sistema di voto in Consiglio, la neutralità militare e il mantenimento del regime fiscale. In realtà sia da Bruxelles che dalle altre cancellerie europee il messaggio è stato chiaro: nessun nuovo negoziato in caso di bocciatura irlandese. L’Unione è stanca di negoziare, quasi certamente le riforme istituzionali sarebbero accantonate e l’Ue procederebbe con le laboriose e farraginose istituzioni del Trattato di Nizza, del tutto inadeguate per un’Europa a 27, inserita nell’attuale congiuntura di incertezza internazionale.

Ma più delle ricadute, peraltro per nulla certe, a preoccupare è un altro dato, anche in questo caso molto simile a quello francese. Di fronte ad un pronunciamento quasi unanime per il «sì» da parte dei principali protagonisti politico-ecconomico-sociali, il risultato sembra ancora in bilico. Si sono infatti espressi per il «sì» le forze di governo e la maggior parte di quelle di opposizione (in particolare i partiti Sinn Fein e Fine Gael), le gerarchie ecclesiastiche ufficiali (i vescovi hanno dedicato al tema un’accorata riflessione pastorale), la potente federazione degli albergatori, il congresso dei sindacati, l’autorevole Presidente della Camera di Commercio Usa a Dublino e la potentissima Associazione degli agricoltori irlandesi (che ha vincolato il suo «sì» all’impegno del governo irlandese nel negoziato in corso all’Omc sui temi agricoli). Questo è il dato davvero allarmante: di fronte alle questioni europee le forze politiche di governo così come gli attori economico-sociali istituzionali non sembrano in grado di avere la giusta presa sulle opinioni pubbliche nazionali. Allora un fronte composito e in apparenza minoritario di ultranazionalisti, fondamentalisti religiosi, pacifisti assoluti e agricoltori abituati a vivere all’ombra di sussidi e protezioni finisce per mobilitare quote decisive di elettorato e a farsi interprete di tutti i malcontenti del momento. L’Europa, a Dublino, potrebbe ancora una volta tramutarsi nel parafulmine per i malcontenti più disparati, dove si scaricano frustrazioni e ansie per la complicata congiuntura economica e il rallentamento del boom irlandese (settore immobiliare in frenata e disoccupazione in aumento), ma anche nell’occasione per esprimere un voto sanzione nei confronti del nuovo Primo ministro Brian Cowen, in carica dal 7 maggio scorso.

Questa paradossale situazione sollecita alcune riflessioni più generali sul rapporto tra opinioni pubbliche nazionale e questioni europee, in particolare istituzionali. Anche una vittoria risicata del «sì» che tipo di messaggio fornirebbe? Che Unione europea si sta costruendo nel momento in cui le sue popolazioni, quando sono chiamate a votare, oscillano tra l’astensionismo e il rigetto? Rispetto poi al caso specifico irlandese non ci si può esimere da un’altra amara considerazione. L’Irlanda è il Paese che più ha ottenuto da Bruxelles negli ultimi 15-20 anni e che deve gran parte della sua crescita ai generosi sussidi europei. Eppure l’europeismo non si può certo definire radicato. Quanto può durare questo europeismo senza i popoli? Infine, anche se si dovesse optare per un nuovo negoziato ad hoc per Dublino, dopo un’eventuale vittoria del «no», quale messaggio si darebbe alle opinioni pubbliche nazionali? Un’altra «fregatura» dopo il doppio «no» franco-olandese, seguito da un Trattato di Lisbona molto simile in realtà a quello bocciato?

Un nuovo «no» farebbe allora ripiombare l’Ue nel clima post 29 maggio 2005, ma in realtà, come ha con grande sagacia ricordato Franco Venturini su «Il Corriere della Sera», l’Unione pagherebbe di nuovo il suo peccato di origine. Aver scelto di mettere in primo piano l’allargamento e di destinare ad un dopo indefinito le sue riforme istituzionali.

Un voto sanzione in Irlanda avrebbe però anche immediate ricadute sul funzionamento istituzionale dell’Unione e sui processi di ratifica in atto. In primo luogo sulla Gran Bretagna e sul pericolante Gordon Brown che deve completare il processo di ratifica del Trattato di Lisbona alla Camera dei Lords e verrebbe di nuovo duramente attaccato dai conservatori e da una consistente porzione di opinione pubblica che da tempo chiede a gran voce il referendum sull’Europa. In secondo luogo sulla Repubblica Ceca, dove l’euro-tiepido Presidente Klaus ha più volte fatto balenare l’idea di un referendum anche a Praga. Ma soprattutto la grande vittima di un potenziale «no» irlandese sarebbe la presidenza di turno francese dell’Ue. La minuziosa preparazione di Sarkozy potrebbe essere frustrata proprio perché i temi dell’immigrazione, dell’ambiente, dell’agricoltura e della difesa, i veri «piatti forti» del semestre, sono anche le questioni più sensibili sulle quali Dublino potrebbe voler aprire un negoziato al ribasso per poi sottoporre il Trattato, con le nuove deroghe, ad un nuovo scrutinio referendario.

Bruxelles trattiene dunque il fiato, ma comunque vadano le cose giovedì in Irlanda, l’immagine offerta è quella di un’Unione che da un lato fatica a spiegare alle popolazioni i suoi successi e i suoi traguardi. Sarebbe davvero un paradosso che l’Irlanda «creata dall’Europa» ne decretasse un nuovo stop. Dall’altro la dimostrazione che i «peccati originali» si pagano. La logica dell’imporre il fatto compiuto, sottesa al grande allargamento del 2004, non ha più alcun senso di esistere. Avvicinare l’Unione europea ai popoli europei appare una priorità fondamentale almeno quanto quella di garantirne l’efficienza a livello di politica internazionale.