L’ironia antileninista di un giovane Prokofief messa in scena a Berlino
30 Dicembre 2007
In Italia il nome di Serghei Prokofief è associato principalmente alle
sue vaste composizioni degli Anni 40 quali l’”opera demoniaca” “L’Angelo
di Fuoco” (che si è ascoltata sia a Roma sia a Milano non molti anni fa),
l’opera mastodontica “Guerra e Pace” (vista sia a Spoleto sia alla Scala
in allestimenti che prevedevano un lungo intervallo per la cena e
contemplavano circa sei ore in teatro), le musiche per i film di
Eisenstein e la grandiose sinfonie. Si rappresentano spesso anche il suo
balletto “Cenerentola” e la deliziosa favola per bambini “Pierino e il
Lupo”. Nei Congressi del PCI veniva spesso intonata la sua enorme
“Cantata per la Pace” (di forte afflato militaresco, nonostante il
titolo).
Si sa che è stato uno degli artisti più celebrati nell’Unione Sovietica,
anche se si sorvola sul fatto che ebbe difficoltà con l’amministrazione
stalinista e che sua moglie Lina (di nazionalità spagnola) venne accusata
di spionaggio, internata sino alla morte di Stalin quando le venne
concesso di tornare nella penisola iberica. Si sorvola anche
sull’amarezza negli ultimi anni della sua vita, quando i suoi lavori non
venivano quasi più eseguiti in Patria e sul curioso destino che lo fece
morire lo stesso giorno di Stalin (con lo conseguenza che il suo decesso
passò inosservato nell’Urss ed all’estero).
Molto poco si sa della sua giovinezza (povera dopo la morte del padre),
dei suoi studi grazie a lezioni di piano e di piccoli aiuti e soprattutto
della sua “fuga” in Occidente allo scoppiare della Rivoluzione d’Ottobre
, a 27 anni per vagare in Occidente, soprattutto tra Parigi, New York e
Chicago. Specialmente, che io sappia, non è mai stata rappresentata in
Italia – ci sono state alcune rare esecuzioni in forma di concerto
– la sua opera più importante di quel periodo: ”L’amore delle tre
melarance” scritta e composta su commissione del Teatro Lirico di
Chicago. Ne scrisse il libretto lui stesso basandosi su un adattamento
del lavoro di Carlo Gozzi curato da Wsewolod E. Meyerhood, allora (negli
Anni 20) uno dei leader della scuola anti-naturalistica europea. La
spiegazione che viene offerta è che richiede 14 solisti e numerosi
cambiamenti di scena, un impegno pesante per teatri di un Paese come il
nostro dove le favole tra il cubista ed il dadaista non sarebbero
gradite al pubblico. E’ tuttavia di repertorio non soltanto in Russia e
nei Paesi dell’Europa centrale ma anche in Francia, nella Penisola
Iberica e negli Stati Uniti.
Chi va in vacanza in Germania ne può vedere un divertente allestimento
alla Komische Oper di Berlino (dove è in scena sino al 27 gennaio, le
rappresentazioni sono sempre in tedesco – in traduzione ritmica se
l’originale è in un’altra lingua). La Komisce ha la fama di allestimenti
trasgressivi con messe in scene portate ai giorni nostri, nudi integrali
e rapporti erotici espliciti. Nulla di tutto ciò nella produzione di
“L’amore di tre melarance” che è messa in scena proprio come Prokofief
avrebbe voluto: allestimento a basso costo ma con un ritmo rapido,
intenso e pieno di gags.
Il libretto è una satira agro-dolce, ma pungente, del potere e dei
sicofanti (specialmente gli intellettuali) che lo contornano. E’ fin
troppo facile individuare una presa in giro della Russia leninista. La
fiaba è situato nel Regno del Re di Picche, di cui si prepara la
successione. A personaggi consueti nelle fiabe (quali la Fata Morgana, le
principesse che sbucano da melarance, i Primi ministri intriganti e le
nipoti infedeli) si affiancano le maschere della commedia dell’arte
(Pantalone, Truffaldino, Farfarello). Ancora più ironica la partitura in
cui Prokofief, con tocchi ben studiati, prende in giro l’opéra lyrique
francese il musikdrama wagneriano, nonché i propri contemporanei
(specialmente Debussy). Non se le prende con il melodramma verdiano ed il
verismo italiano unicamente perché non li considerava neanche degni di
ironia. Il lavoro non è però un divertissiment intellettuale per eruditi.
Il ritmo è velocissimo. Il jazz, il fox-trot, lo swing , le marce si
inseriscono perfettamente in arie, declamato, concertati ed interventi
continui del coro.
Prokofief si era proposto di creare un teatro in
musica basato su fantasia, ironia, azione e divertimento, tale da poter
gareggiare (presso il pubblico) con i film di Charlie Chaplin e dei
Fratelli Marx. La regia di Andreas Homoki è fedele a questo spirito. Per rendere il
ritmo più incalzante, il prologo e i quattro atti sono interrotti da un
solo breve intervallo, la scena è unica e molto semplice, i costumi
sgargianti ed ai cantanti si richiede di essere non solo attori ma anche
atleti. Si ride e ci si diverte pur se non si conosce il tedesco (ma
occorre leggere una sintesi del complicato intreccio). Molto buona
l’orchestra guidata dal giovane Mathias Foremmy. La Komische è un teatro
di repertorio con una compagnia stabile. Nelle voci, dunque, fa premio
l’affiatamento tra i numerosi solisti ed il coro, quasi sempre in scena
in gruppi di dieci cantanti ( “gli eccentrici”, i “tragici”, i “comici”,
i “lirici”, le “teste vuote”, i “diavoletti”, i “medici”) di cui, tranne
che nel prologo (interamente corale), soltanto due o tre sono
contemporaneamente sul palcoscenico. Mediamente le voci femminili sono
migliori di quelli maschili.