L’isola dei famosi è stata la rovina di un grande autore come Stevenson
02 Maggio 2010
“Non c’è niente di più bello che dimenticare, se non forse essere dimenticati”. Oscar Wilde, il grande eretico dell’età vittoriana, esprimeva così l’abbandono, il desiderio di fuga, l’ansia di oblio tipici della sua epoca. Ma a viverli fino in fondo fu un suo contemporaneo, un altro grande irregolare assetato di avventura e ispirazione. Robert Louis Stevenson viene in genere ricordato come uno scrittore per ragazzi, tutt’al più come l’autore del più scabro e inquietante thriller psicologico di sempre, quello “strano caso del dottor Jekyll” che scandalizzò schiere di puritani dell’Inghilterra di fine Ottocento, ma è in realtà un artista in piena regola, un narratore raffinato, tra i più grandi della sua generazione.
Nato ad Edimburgo, tra le brume della fredda Scozia, scelse di morire ai confini del mondo, nella perenne estate delle isole Samoa, al termine di un lungo, personale viaggio alla ricerca della felicità. Prove di un’indole ribelle, di un temperamento inquieto e romantico, ne aveva già date in abbondanza prima di allora. Da bambino fragile e introverso si era trasformato in un giovane incostante, attratto dalla letteratura e dagli eccessi, da una vita sregolata che aveva finito per rovinargli la salute. I sintomi precoci della tubercolosi lo obbligavano a spostamenti forzati, per sfuggire alle insidie delle stagioni ostili, e frequenti soggiorni in stazioni climatiche e stabilimenti termali. Eppure la salute malferma non gli impedì di inseguire fino in California, e poi di sposare, Fanny Osbourne, moglie divorziata di un uomo politico americano, più vecchia di lui di dieci anni. Un amore travolgente e fuori dagli schemi, scoppiato anni prima in Francia, dove Robert studiava arte, e destinato a durare per tutta la vita. Insieme a Fanny, nel 1888, Stevenson compì l’ultima scelta di vita, la più eclatante.
Su invito di un editore americano accettò di scrivere il resoconto di un viaggio “dal vero” e intraprese una lunga crociera nei mari del Sud. A bordo della goletta Casco visitò le Isole Marchesi, le Hawaii, Tahiti e l’Australia, per approdare infine a Upolu, nell’arcipelago delle Samoa occidentali. Stevenson vi giunse nel dicembre del 1889 come un perfetto corsaro, l’aspetto trasandato e ribaldo, gli occhi spiritati e profondi. Ma la sua malattia dava segni di netto miglioramento e la sua caccia alla felicità stava per finire.
Affascinato dal posto, decise di stabilirsi nell’isola, poco lontano dal villaggio di Apia. Comprò Vailima, la “terra vicino alle acque”, e là, tra il mare e la foresta, costruì la sua casa, oggi trasformata in un museo pieno di “reliquie” dello scrittore. Con gli indigeni stabilì un rapporto cordiale e autentico, denunciando la barbarie del colonialismo e i rischi della cosiddetta civiltà: per gli indigeni diventò semplicemente Tusitala, il “raccontatore di storie”, il menestrello di miti lontani e l’affascinato ascoltatore delle leggende locali, l’ambasciatore “sui generis” di una istintiva comprensione tra i popoli. “Sotto il cielo vasto e stellato”, nel grembo soffice della notte agli antipodi, passeggiando in riva al mare lungo anelli di sabbia bianchissima, assaporò per anni le gioie semplici dell’anonimato.
Fino al 1894, quando un’embolia al cervello lo stroncò improvvisamente, precipitando gli indigeni nella disperazione. Per esaudire le sue ultime volontà i Samoani ricavarono un sentiero nella boscaglia fino alla sommità del monte Vaea, dove Stevenson fu sepolto su una spianata che dominava il porto di Apia. “Il marinaio è a casa, la sua casa di fronte al mare, il cacciatore è tornato dalla collina”. L’immedesimazione dello scrittore coi suoi personaggi era finalmente completa: come un vecchio lupo di mare, partito per raggiungere un’isola sconosciuta, Stevenson aveva scoperto che quell’isola gli apparteneva da sempre, e aveva trovato il suo tesoro, nascosto ad aspettarlo ai confini del mondo.
Roba (e morale) d’altri tempi… Oggi, nell’epoca del consumismo, della globalizzazione e dell’invadenza mediatica, anche le isole hanno perso la pace. L’incanto è rotto: i confini del mondo sono diventati terreno di conquista per l’ultima generazione di “reality”, scandalosa da far drizzare i capelli in testa ai più incalliti libertini dell’età vittoriana. Se, a contatto con la natura selvaggia, Stevenson cercava la verità oltre gli inganni, la “voce del silenzio”, l’esposizione quotidiana dei naufraghi televisivi in costume da bagno e pareo, bandana e carni pendule, ha ben altro sapore. Vecchie glorie in cerca dell’ultima ribalta, tronisti scolpiti e vallette sgambettanti disperatamente aggrappati al loro quarto d’ora di celebrità: di realmente famoso, a dispetto del titolo, i famosi dell’Isola hanno poco o niente.
E il loro spettacolo di finta verità e vera ipocrisia non è certamente destinato a rimanere negli annali. Ma tutto questo ovviamente non conta: l’unica cosa che importa davvero è acchiappare l’audience, qui e adesso. Magari con un espediente facile e furbesco, attraverso l’esibizione di una mediocrità spudorata e inconsistente. E chissenefrega se l’idea stessa dell’isola è corrotta alla radice, se il luogo simbolico del raccoglimento si trasforma per assurdo in un trampolino di lancio verso il chiasso del jet set, i lustrini e le ruffianerie dello show business…
Così va il mondo, signori: dietro i pianti e gli abbracci, le menate sulla forma fisica e il rinnovamento interiore, il successo è la sola preoccupazione dei naufraghi televisivi. Quel successo che Stevenson aveva voluto ostinatamente dimenticare nel buen retiro delle isole Samoa. Scrollandosi di dosso smanie e ambizioni, riscoprendo un senso infantile di innocenza e gratuità, e alla fine svolgendo, nell’atto di vivere per il gusto di vivere, il suo “grande compito di felicità”.