L’Italia degli europeisti umiliata dall’Europa
17 Ottobre 2007
L’Unione europea ha abituato i suoi cittadini ai più
imprevedibili paradossi, in particolare nel corso degli ultimi anni. Per citarne
due dei più recenti basti pensare al «no filo-europeo» della gauche francese il 29 maggio 2005, vera
e propria contraddizione nei termini dal momento che, con quel voto, l’Ue si è
avviata sulla strada di una paralisi non ancora terminata. In secondo luogo la
decisione del 3 ottobre dello stesso anno di aprire i negoziati di adesione per
l’ingresso della Turchia senza la benché minima idea di come gestire
politicamente ed istituzionalmente la nuova Europa a 27.
A due giorni dal fondamentale vertice di Lisbona ecco il
nuovo paradosso. Polonia, Repubblica Ceca e Gran Bretagna erano attese al
varco, come possibili elementi di disturbo dell’accordo decisivo sul nuovo
Trattato semplificato. E invece è l’Italia a minacciare il veto o comunque a
fare la voce grossa. Il casus belli è
da alcuni giorni al centro dell’attenzione. La riduzione complessiva del numero
dei deputati europei (da 785 a
750) è stata particolarmente penalizzante per l’Italia, che perde sei seggi,
contro i cinque inglesi e i quattro francesi. La parità dei «tre grandi»,
dietro alla Germania con 96 seggi, è così destinata a svanire. Al di là del risultato
simbolico, significativo è che l’Italia non sia riuscita a costruire a
Strasburgo una coalizione da opporre al progetto di legge Lamassoure-Severin. Per
altro la proposta degli eurodeputati francese e rumeno era chiaramente negativa
per l’Italia dato che si basa sulla proporzionalità rispetto ai cittadini
residenti, come prescritto dai Trattati di Roma. L’Italia è da questo punto di
vista penalizzata dal momento che ha molti cittadini residenti all’estero (e
dunque computati all’interno di altre realtà nazionali) e un’immigrazione
regolare non particolarmente massiccia.
A questo punto a poco servono le prese di posizioni decise e
vagamente minacciose del ministro degli Esteri D’Alema. La linea della
Farnesina è difficilmente sostenibile. Da un lato infatti Roma non vuole di
certo passare per «killer del Trattato semplificato» e dunque chiede di
stralciare il voto del Consiglio europeo sulla riduzione dei parlamentari dal
prossimo vertice. Dall’altro lato la diplomazia portoghese, che esercita la
presidenza di turno, e quelle di altri Paesi (la Francia, ma soprattutto la Spagna) sono state chiare:
Trattato e redistribuzione dei seggi fanno parte di un unico pacchetto istituzionale
che va approvato contestualmente.
Tra meno di due giorni sapremo come finirà la querelle sul numero dei parlamentari
italiani. Fonti diplomatiche accreditate di Bruxelles ritengono che si andrà al
rinvio, ma soltanto per convincere l’Italia dell’irrevocabilità della
decisione. Al momento la situazione sollecita due riflessioni. La prima è di
carattere più generale e riguarda il futuro dell’Europa. Dal crollo del Muro di
Berlino la costruzione europea fatica a trovare un suo percorso lineare e
finisce continuamente per bloccarsi spesso di fronte a richieste autoreferenziali
e molto poco assimilabili allo spirito comunitario. Non bisogna dimenticare che
fino a pochi giorni fa la
Polonia rivendicava l’introduzione nel nuovo Trattato della
«clausola di Ioannina» che permette di creare una minoranza di blocco anche nel
caso di una decisione presa a maggioranza qualificata. Il successo del vertice
di Lisbona del 18-19 ottobre prossimi è fondamentale innanzitutto perché
dovrebbe definitivamente chiudere, almeno per un po’, la parentesi
istituzionale apertasi dopo il fallimento di Nizza 2000. A questo punto, si
spera, si tornerà a fare politica, magari partendo da quel pilastro di politica
estera e di difesa indispensabile in epoca di terrorismo globale e considerato
dall’opinione pubblica europea il vero e proprio ambito di sviluppo
privilegiato per il futuro dell’integrazione.
La seconda riflessione riguarda il nostro Paese. È desolante
vedere una maggioranza di governo così ricca di personalità di «provata fede
europeista» (basti pensare Romano Prodi, Tommaso Padoa-Schioppa, Giuliano
Amato, Emma Bonino, Massimo D’Alema) condurre l’Italia ad occupare
continuamente posizioni di retroguardia nel dibattito europeo. Lo si era notato
in occasione del Consiglio europeo di fine giugno 2007 (con Sarkozy, Blair e
Merkel mattatori e Prodi attore di terza fila) e lo si vede ora sulla questione
dei parlamentari italiani a Strasburgo.
Ma il nocciolo della questione è forse tutto
nell’espressione «provata fede europeista». L’Europa del XXI secolo non
necessità di approcci fideistici o aprioristicamente europeisti. Necessita di
efficienza, spirito di iniziativa. Serve soprattutto operare per fornire all’Ue
una nuova missione. Dopo aver vinto, nei suoi primi 50 anni, la scommessa della
ricostruzione, della crescita e del benessere si tratta ora per l’Ue di
tramutarsi in vero protagonista della politica globale. In Italia si continua a
guardare indietro, per fortuna in Europa molti guardano avanti.