L’Italia entra in guerra ma non è un’avanzata trionfale
19 Novembre 2013
L’entrata in guerra in quel crepuscolo di maggio si rivelò subito un buon viatico per l’umore dell’intero Paese. Digiuni da decenni da guerre vere, se si esclude la vittoria di Libia (con perdite altissime nonostante i bollettini taroccati di Giolitti) dalla terza guerra di indipendenza avevamo rimediato solo sonore batoste e figuracce sul piano internazionale. Era questa, pertanto, una perfetta occasione per rimediare a cinquant’anni di umiliazioni e frustrazioni.
La scelta del Capo dello Stato maggiore cadde sul generale Luigi Cadorna, malgrado non fosse ben visto né dagli ambienti militari né da quelli governativi: Giolitti e il re gli avevano preferito sei anni prima il generale Pollio ma, dopo la morte di questi, stavolta, anche Vittorio Emanuele che non lo stimava, dovette cedere e chiamarlo al comando. Il re, che dell’esercito era il capo supremo, decise, contrariamente alla tradizione di casa Savoia, di non assumere il comando in prima persona: nonostante molti generali ancora credessero che quel conflitto andasse combattuto “all’ottocentesca”, il re aveva capito che ormai le guerre non erano più quelle dei soldati a cavallo che suo nonno aveva combattuto a fianco diNapoleone III. Decise così di mantenere il comando supremo ma solo in via formale, delegando ogni decisione a Cadorna che, negli anni, avrebbe trovato non pochi punti di attrito col re sulla gestione della guerra. Tuttavia, per dare un segnale forte circa il suo impegno e la sua partecipazione decise di lasciare Roma, nominando luogotenente del Regno in sua vece lo zio Tommaso di Savoia, per trasferirsi in Friuli, a pochi chilometri dal fronte ma anche a debita distanza dallo stato maggiore di Cadorna che, stabilitosi a Udine, fece di questa città, per più di due anni, la vera capitale d’Italia. Il Parlamento e il Governo ancora non immaginavano di essere stati esautorati, in pratica, dal prendere le decisioni più importanti; Vittorio Emanuele, complice di questa forzatura, avrebbe ripetuto lo stesso comportamento sette anni dopo, con conseguenze ben più drammatiche di queste.
Cadorna, infatti, nell’accettare l’incarico, mise subito al corrente il re che non avrebbe accettato ingerenze o condizionamenti politici di alcun genere, che le decisioni più importanti spettavano a lui e che, in caso di contrasti, un minuto dopo avrebbe gettato tutto all’aria: la guerra dell’Italia non iniziava certamente sotto i migliori auspici, anche sotto l’aspetto dei successi.
Chi si aspettava infatti, dopo il giubilo dell’attraversamento del confine, una avanzata trionfale rimase ben presto deluso. La guerra, o meglio, le guerre, non erano più da tempo in mano alle cavallerie che potevano lasciarsi alle spalle chilometri di prateria sia nell’avanzata che nella ritirata. Ora i conflitti erano prima di tutto condotti sotto il piano tattico-psicologico, per pochi metri di terreno da conquistare si doveva attendere per mesi, imbucati nelle trincee, senza mai guardare in faccia l’avversario. Potevano passare anni per percorrere solo poche decine di centinaia di metri. Era un tipo di guerra a cui, appunto, l’Italia, non era preparata e i risultati furono evidenti fin da subito. Il fronte italiano aveva oggettivamente delle problematiche ingenti: dal punto di vista morfologico era difficilissimo da controllare non solo per la vastità della sua linea ma anche per la diversità del panorama che si estendeva dalle massicce catene montuose alpine del Trentino fino all’Isonzo intorno al quale, Cadorna, cominciò a sferrare i suoi attacchi più decisi, lasciando spesso scoperto il Trentino: una scelta che si rivelò, di lì a poco, tragica. L’opinione pubblica, che si era depressa con la stessa velocità con la quale s’era infiammata pochi mesi prima, già prefigurava un esito più lungo e meno scontato del previsto. Pur tra le sue debolezze, l’esercito austroungarico era ancora uno dei più forti e vasti del mondo e la piccola Italia già a corto di munizioni e finanziamenti, non riusciva a sfondare la linea nemica. Il progetto degli alti comandi di conquistare in breve tempo Gorizia, per poi da Trieste entrare in Vienna era ormai una ipotesi ridicola anche agli occhi dello Stato maggiore. I militari, nonostante non fosse passato neanche un anno dall’entrata in guerra, erano col morale a pezzi, malnutriti e sottoposti a pressioni psicologiche devastanti. Il pugno di ferro di Cadorna stava già cominciando a dare i risultati opposti a quelli che si volevano raggiungere. Tutto ciò proprio mentre il governo Salandra, da Roma, provava timidamente a far passare qualche direttiva al generalissimo che non ne voleva sapere di cedere alla politica, digiuna di conoscenze militari. Oltre al fronte italo-austroungarico ne nacque quindi ben presto un altro, ben più movimentato, che vedeva Roma e Udine contrapposte neanche troppo velatamente. Un altro, l’ennesimo, grave errore che avremmo pagato molto caro. (Fine della sesta puntata. Continua…)