L’Italia eviterà il default ma sarà più povera. Il centrodestra copia Visco
13 Luglio 2011
A quasi dieci anni dall’inizio della circolazione, a dodici dalla sua entrata in vigore l’euro è in queste settimane sotto attacco. Le borse di tutta Europa segnano il ribasso, e ad essere sotto accusa sono gli Stati i cui bilanci presentano alto debito e propensione al deficit, come la Grecia, il Portogallo, la Spagna, l’Irlanda e l’Italia.
Evidentemente l’euro non ha avuto le virtù taumaturgiche che gli venivano riconosciute dieci anni fa. In effetti, le nazioni che oggi rispettano i parametri fissati nel trattato di Maastricht quali condizione all’adozione dell’euro sono meno di quelle che li rispettavano nel 1999. Da allora ad oggi le economie europee sono cresciute debolmente e la moneta unica non ha accelerato la nascita del mercato unico, né ha accresciuto la competitività dell’eurozona.
L’adozione dell’euro è stata una scelta vantaggiosa per gli Stati meno indebitati e che ha penalizzato duramente quelli più indebitati. Inoltre l’euro non ha dato alcuna spinta automatica alla riduzione dei fattori strutturali di creazione di deficit e di debito. Dal 1999 ad adesso non c’è stato alcun risanamento dei bilanci, anzi qualche Stato ha peggiorato la sua condizione.
Eppure la crisi finanziaria globale ha cambiato il quadro di riferimento di Stati e governi. La novità è che anche gli Stati possono fallire. E’ in questo quadro di riferimento che si è dispiegata la politica economica del governo Berlusconi dal 2008 ad oggi. Una politica economica che ha portato alla sconfitta del centrodestra nelle ultime elezioni amministrative e che, a meno di improbabili svolte radicali, porterà a una secca sconfitta nelle prossime elezioni politiche.
Non è in discussione l’obbiettivo del pareggio di bilancio. Questo dovrebbe far parte del codice genetico del centrodestra, che dovrebbe combattere senza tregua per ridurre la spesa pubblica e l’invadenza dello Stato nell’economia. Dunque il problema non è allentare i cordoni della borsa, soprattutto quando in quella borsa non ci sono soldi, ma solo cambiali.
Quello che si dovrebbe discutere è come raggiungere il pareggio di bilancio, quale blocco sociale premiare e quale punire. Chi si candida a guidare una nazione sceglie quali interessi vuole rappresentare e quali no. E gli elettori scelgono chi rappresenterà innanzitutto i loro interessi.
Chi siano gli elettori di centrodestra è abbastanza chiaro: in prevalenza il ceto medio produttivo, i quattro milioni di imprenditori che si trovano solo in Italia, chi lavora con loro, i piccoli risparmiatori. E altrettanto chiaro è chi sta con il centrosinistra: il pubblico impiego ai vari livelli, i pensionati sindacalizzati della grande industria, parte degli attuali lavoratori di quelle stesse imprese.
In questi tre anni il ministro dell’economia e il presidente del Consiglio hanno rivendicato il vanto di aver tenuto in ordine i conti pubblici. E in effetti la manovra triennale approvata all’inizio della legislatura (quella dei tanti biasimati tagli lineari) ha avuto il merito di ridurre la crescita della spesa pubblica, riuscendo così a contenere la crescita del deficit entro limiti accettabili.
Tutto il centrodestra ha sostenuto quella manovra per dare al governo il tempo necessario – i primi tra anni di legislatura – per realizzare le riforme indispensabili alla riduzione progressiva del debito e alla netta riduzione delle spesa dello Stato che oggi supera il 50% della ricchezza prodotta.
Si tratterebbe di fare quello che da anni il centrodestra indica e che la forza politica di cui il centrodestra disponeva all’inizio della legislatura potevano rendere possibili, mettendo in conto naturalmente una dura reazione degli interessi consolidati.
La ricetta avrebbe dovuto precedere la definitiva privatizzazione delle aziende pubbliche (con i ricavi da destinare all’ammortamento del debito), la piena equiparazione del contratto di lavoro pubblico a quello privato; un più rapido innalzamento dell’età di pensione vista la crescita dell’aspettativa di vita; l’abbattimento dei costi burocratici imposti a cittadini e imprese, la semplificazione e la certezza normativa con l’adozione dei testi unici, la riforma della giustizia civile, l’attrazione di capitali da investire in infrastrutture attraverso concessioni pluridecennali delle opere, la riduzione delle tasse verso le imprese con la parallela riduzione degli aiuti pubblici, così da favorire le imprese produttive su quelle parassitarie.
Cosa è stato fatto di tutto questo? Poco o nulla. Le semplificazioni di procedure e leggi sono rimaste sulla carta; le imprese pubbliche sono sempre più pubbliche; chi lavora nel pubblico impiego lavora meno ore, non conosce rischio e guadagna di più di chi lavora nel privato (con la sola eccezione delle forze dell’ordine); si continua ad andare in pensione quando si è ancora in piena efficienza, la giustizia civile e penale producono sentenze che fanno fuggire qualunque investitore (come quella sul Lodo Mondadori o su Thyssen-Krupp); le opere pubbliche sono soggette al ricatto dei No-Tav; e le imprese produttive, soprattutto le piccole e le piccolissime, sono quelle su cui il governo ha scaricato il costo della crisi.
Come, vi chiederete? È semplice. Basta leggere quello che ha letto alla Camera e al Senato il Presidente del Consiglio rivendicando di aver destinato in tre anni 80 miliardi di euro agli ammortizzatori sociali straordinari e di aver garantito così la coesione sociale. Quegli 80 miliardi hanno mantenuto posti di lavoro, ma hanno tenuto in vita imprese sane e imprese malate, senza che alcuna distinzione fosse possibile.
Intanto quelle imprese hanno ridotto la produzione e parallelamente gli ordini ai fornitori, di regola le piccole e piccolissime imprese. Che in questi tra anni hanno invece dovuto fare fronte a tre bufere contemporaneamente: la secca riduzione di ordini e fatturati; la stretta sul credito, visto che le banche in crisi hanno chiesto di rientrare rapidamente dalle esposizioni; l’aggressione dell’Agenzie delle Entarate e di Equitalia che hanno condotto in molti casi un’attività di vero e proprio taglieggiamento, grazie all’inversione dell’onere della prova (è il contribuente che deve dimostrare di non aver guadagnato quello che gli accerta il fisco) e alla minaccia di paralizzare definitivamente la vita aziendale.
Accerchiati da questo mostro a tre teste, che si presentava con il biglietto da visita del governo amico, le piccole e piccolissime imprese hanno avuto solo una scelta: licenziare. Naturalmente chi ha perso il lavoro in questo modo non è venuto a protestare a Roma. Ha cercato e talvolta trovato un nuovo lavoro, si è accontentato di un lavoro meno retribuito, si è arrangiato con il primo degli ammortizzatori sociali italiani, la famiglia, secondo la vecchia regola per cui dove si mangia in quattro si può mangiare in cinque.
Intanto nella grande impresa nessuno scioperava, anche se il lavoro era calato drasticamente. Gli 80 miliardi di euro hanno garantito l’apparente pace sociale.
Se si guarda l’evoluzione elettorale del centrodestra in relazione alla politica economica e sociale, si può osservare che il calo degli elettori è stato costante, seguendo di un anno gli effetti della crisi e delle politiche economiche. Ed è per questo che la crisi di consenso è scoppiata nel 2011, mentre la crisi delle imprese ha toccato il suo picco nel 2009-2010.
Ora la manovra triennale – che sconta le mancate riforme – ha rotto anche gli ultimi tabù. Ha incrementato le tasse e ha toccato il risparmio, con un balzello insopportabile e con la scelta di innalzare il prelievo fiscale nel prossimo futuro. La stessa riforma fiscale, che pure il premier ha cercato di valorizzare come il traguardo della legislatura, non ha riportato al centrodestra il consenso sperato. Probabilmente perché “promette” di far crescere le entrate di 17 miliardi di euro l’anno. E dunque aumenta le tasse, non le riduce.
Con queste scelte di politica economica l’Italia probabilmente eviterà il default, ma non contrasterà il suo progressivo impoverimento. E il centrodestra, che ha seguito la linea di politica economica di Padoa Schioppa e Visco, cederà lo scettro a chi quella politica ha sempre sostenuto.