L’Italia non è un paese per giovani ma grazie alla Meloni potrebbe diventarlo
18 Aprile 2011
Pari opportunità per i giovani. Dopo una lunga battaglia a favore del genere femminile per l’accesso alla cariche elettive, conclusasi con una doppia modifica costituzionale: artt. 51 e 117 Cost., si apre ora una sfida per far sì che «La Repubblica valorizz[i], secondo criteri e modi stabiliti dalla legge, il merito e la partecipazione attiva dei giovani alla vita economica, sociale, culturale e politica della Nazione», come recita l’art. 31 bis proposto nel disegno di legge costituzionale presentato dal ministro Meloni nei giorni scorsi.
Se la presenza femminile nella assemblee rappresentative era scarsa, al punto di doverla favorire con norme incentivanti, che ora godono di copertura costituzionale, quella dei giovani è una presenza assolutamente modesta, complice una inadeguata attenzione normativa e costituzionale. Da ciò ne deriva anche una crescente disaffezione giovanile per la politica e per i temi politici, che non lascia certo ben sperare per il futuro del Paese.
Aggiungere in costituzione una norma come quella prima citata, vuol dire consentire di fare –senza incorrere in censure di incostituzionalità– una legislazione mirata a valorizzare merito e partecipazione giovanile nei diversi settori della vita, e quindi non solo quello della politica. Per fare un esempio: si potrà introdurre, con legge, la riserva di quota per i giovani, individuando entro quale età anagrafica, nei consigli di amministrazione delle società partecipate (come oggi avviene per le donne); oppure si potrà prevedere, con legge, la pari opportunità dei giovani alle cariche elettive nei consigli comunali e provinciali, obbligando le liste dei partiti a prevedere la presenza al loro interno di un certo numero di giovani, che non abbiano superato una determinata età (che sarà fissata dal legislatore).
E proprio sulle cariche elettive, si segnalano gli altri articoli della costituzione che il ddl Meloni propone di cambiare. E cioè, quelli riguardanti l’elettorato attivo e passivo per Camera e Senato. In Italia, sul punto, abbiamo una situazione piuttosto anomala, specialmente se vista nel panorama europeo: perché per votare alla Camera ci vuole la maggiore età (dagli anni Settanta fissata a 18 anni, prima era 21) mentre per essere eletti ce ne vogliono 25; al Senato, invece, per votare sono richiesti i 25 anni mentre per essere votati occorre avere almeno 40 anni. Se queste asimmetrie elettorali avevano un senso nel 1948, anno in cui entrò in vigore la nostra Costituzione, oggi, francamente, hanno perso larga parte del loro significato. Anche perché non si spiega come mai si può diventare sindaco o presidente di regione a 18 anni e non deputato.
Da qui la proposta, condivisibile, di uniformare l’elettorato attivo e passivo per la Camera e per il Senato, in tal modo che a 18 anni si può eleggere o essere eletto deputato, mentre a 25 anni si può votare o essere votato al Senato. Una proposta che mantiene una differenziazione bicamerale ma equipara l’elettorato attivo e passivo. Una proposta, va ricordato, che era già presente nel progetto di riforma costituzionale approvato dalle Camere e poi respinto dal referendum popolare nel 2006. Una proposta che, si spera, incontri il favore e l’appoggio delle minoranze parlamentari e possa quindi essere approvata con la maggioranza qualificata, secondo il procedimento parlamentare di revisione costituzionale (ex art. 138 cost.).
E’ nota l’affermazione di Benedetto Croce: «il problema dei giovani è di diventare adulti». Oggi, invece, possiamo dire che il problema degli adulti è quello di non avere giovani con cui confrontarsi e da cui attingere nuove idee e nuovi entusiasmi. Specialmente in politica. Una soluzione adesso c’è, basta crederci e volerla.