L’Italia non ha più tempo
25 Gennaio 2021
Il tempo che avevamo l’abbiamo ipotecato in 20 anni di politiche sconclusionate, valzer di poltrone, ribaltoni e sudici accordi sottobanco per sabotare i governi. Dico “abbiamo”, perché non dobbiamo commettere l’errore, così inconfondibilmente italiano, di incolpare “la politica” quando è evidente che la politica è espressione della società, che sceglie i propri rappresentanti e partecipa al dibattito pubblico, seppur con mezzi mediati, rituali ed imperfetti. Sarebbe servita visione, cultura del merito, responsabilità, programmazione e monitoraggio e un po’ di pragmatismo; di occasioni ne abbiamo avute diverse per riformare la nostra democrazia e renderla più snella moderna ed efficiente.
Ci siamo affidati agli outsider, ai tecnici, a tutti coloro che promettevano il cambiamento: dall’imprenditore sceso in campo, ad improbabili coalizioni proporzionalistiche della sinistra professorale, dal professore Bocconiano, al rottamatore fiorentino, a vari tecnici super partes o presunti tali e, infine ad un movimento populista guidato da un comico. Abbiamo votato a destra a sinistra al centro, al nord e al sud, ma niente.
I governi eletti che si sono alternati hanno applicato ricette differenti, ma con risultati analoghi. Il Bel Paese di oggi è più complesso, più incerto e più inefficiente.
Abbiamo reso incredibilmente complicata l’amministrazione, in ossequio alla logica giuridico-intellettual-paternalista che vuole l’Italiano inaffidabile e disonesto. Di conseguenza, invece di norme chiare, pochi divieti e punizioni sicure, si è creata una selva impenetrabile di leggiucchie, che ha reso tutto lento ed incerto. La storia ci insegna che complessità e incertezza sono esattamente ciò che allontana gli investitori, che frustra l’imprenditorialità, che rende opaco il merito; ciò che blocca il progresso.
Abbiamo scardinato i già precari equilibri istituzionali di una democrazia giovane e fragile, prendendo in giro noi stessi con continui cambi di regole elettorali, con la moltiplicazione dei centri decisionali, con la superfetazione dei centri di potere, con il vilipendio delle prassi istituzionali. In vent’anni di discussioni non siamo stati in grado di esprimere una leadership che offrisse al Paese un programma istituzionale e di sviluppo credibile. C’è chi ha provato a riformare tutto, ed è stato eliminato, rigettato dall’ordine costituito, da gruppi intermedi arroccati a difesa delle loro posizioni, e da un’opinione pubblica immatura. C’è chi ha provato con riforme parziali, come nel caso della disastrosa riforma del titolo quinto, ed ha reso tutto ancor più opaco, più esposto al malaffare, più debole ed inefficiente.
Abbiamo sperperato risorse, senza mai una visione chiara di sviluppo per il Paese, senza attenzione al tessuto produttivo, incuranti di ciò che succedeva nel mondo. L’élite dei vari governi che si sono succeduti ha instancabilmente moltiplicato il debito per offrire prebende ai propri gruppi elettorali di riferimento animando le divisioni, esacerbando l’ineguaglianza, frustrando gli animi e lo spirito d’iniziativa.
In questi giorni difficili e tristi con il Paese reso così vulnerabile dalla pandemia, abbiamo assistito all’ennesima manifestazione di inadeguatezza. Al di là delle inefficienze nella gestione dell’emergenza sanitaria, della misera gazzarra politica che sta mettendo in ridicolo il paese, ciò che mi preoccupa di più è l’inadeguatezza, per non dire la pochezza, del Recovery Plan. Scritto e riscritto, pasticciato nei suoi titoli roboanti privi di contenuto, redatto senza un’idea di Paese, senza l’evidenza di un contributo delle parti sociali, con la società civile ammutolita, asfissiata com’è da mesi di divieti e distanziamento sociale.
E così se ne va un’altra occasione unica. Con 300 miliardi e il ritrovato spirito innovativo e solidale di un’Europa finalmente unita, si potrebbe ricostruire il Paese, ma servono una visione, una buona dose di pragmatismo e la volontà di mettersi in gioco. Non conta più il colore politico, la provenienza territoriale, la corporazione di riferimento, conta lo spirito del Paese e l’affermazione, finalmente di una élite coraggiosa che lo sappia interpretare. Altrimenti quei 300 miliardi, da volano di progresso, rimarranno soltanto debiti sulle spalle dei nostri figli.