L’Italia non molla l’Afghanistan e punta dritta all’obiettivo: la “ricostruzione”
27 Luglio 2009
Quest’ultimo fine settimana è stato infernale per il contingente italiano in Afghanistan. Un nuovo attacco suicida ha fatto 4 feriti tra i nostri militari a Herat. Il presidente della Camera Fini ha parlato di una "recrudescenza delle attività ostili" e il ministro della Difesa La Russa ha confermato l’impegno italiano: "Torneremo indietro quando avremo concluso l’obbiettivo della missione", cioè mettere in sicurezza il Paese, permettergli di gestirsi in modo autonomo, sconfiggere i Talebani. Vediamo come.
2 luglio 2009: gli Usa lanciano a Helmand, la provincia più a sud dell’Afghanistan, quella che viene definita “la più grande operazione aerotrasportata mai compiuta dai Marines dopo la guerra nel Vietnam”. L’operazione “Khanjar”, colpo di spada, conta 4.000 fra Marines e altri militari Usa assieme a circa 650 soldati e agenti di polizia afghani, 50 aerei e un numero imprecisato di elicotteri. Roboante, molto “american style”, a cominciare dai termini usati nel fiume di comunicati stampa e dichiarazioni che vengono rilasciate.
Un’operazione che rientra perfettamente nella strategia degli americani a breve, medio e lungo termine in Afghanistan: primo, ripulire il terreno, poi rimanere accanto alle forze afghane per ricostruire le fiducia, quindi offrire alternative credibili alle coltura dell’oppio. I molti detrattori dell’operazione accusano gli americani di usare troppo i muscoli: l’Afghanistan non si “conquista” con i carri armati. Ce lo insegnano l’Inghilterra, l’Unione Sovietica e quanti hanno visto infrante, tra questi monti e impenetrabili valli, ogni velleità di occupazione.
In Afghanistan si vince, dicono, conquistando “i cuori e le menti” degli afghani. Un forte senso di appartenenza etnica e un orgoglio e una dignità che decenni di guerra non hanno assolutamente scalfito sono le caratteristiche principali di questo popolo.
Gli americani sembravano averlo capito. Da marzo 2008, in particolare, quando scatta l’operazione “Human Terrain”. Il manuale è quello del generale David Petraeus, l’uomo che ha permesso di vincere la guerra in Iraq. I militari escono dalle basi e “battono” il territorio casa per casa, ma senza armi, bensì “presentandosi”: mentre stabiliscono rapporti personali con la popolazione civile, registrano la “mappatura” delle famiglie, la loro composizione, le reti parentali, gli spostamenti, i rapporti di lavoro. Infine, rassicurando sul perché della loro presenza nel Paese, cercano di portare dalla loro il consenso che, altrimenti, la popolazione accorderebbe (forse non proprio spontaneamente) a trafficanti e talebani.
Probabilmente, l’avvicinarsi delle elezioni, in programma per il 20 agosto prossimo, però, ha imposto un’accelerazione nelle operazioni. E così, la Khanjar ha preso forma.
In molti, tuttavia concordano su un punto: la vera guerra non è questa. La vera guerra per gli americani inizierà una volta finita l’offensiva. Quando, cioè, gli avamposti che saranno riusciti a piazzare in zone sperdute del sud dovranno essere difesi dagli attacchi che gli insorti, in un primo momento dispersi e una volta ricostituite le fila, ricominceranno a sferrare. L’unica possibilità per loro è quella, appunto, di portare dalla loro la gente del posto.
Ma gli americani, si sa, non sono mai stati “i primi della classe” in quanto ad approccio con la popolazione civile. In questo gli italiani li superano di gran lunga. Ed è riconosciuto da tutti.
Di qui la “Italian way to peacekeeping”, una sorta di “marchio di fabbrica” che in molti cercano di imitare. Un approccio fatto di conoscenza e rispetto degli usi e delle tradizioni locali prima di tutto. E poi, della consapevolezza di essere “ospiti” in terra straniera. E di doversi muovere, quindi “in punta di piedi”.
Il capitano Manuel Solastri, capo gruppo CIMIC presso il PRT di Herat, ne è ben consapevole. E lo mette bene in chiaro ancor prima di elencare la lunga lista di progetti che gli italiani stanno realizzando a Herat e provincia. Tradotto dal militarese, CIMIC sta per Cooperazione civile e militare, mentre PRT sta per Team di ricostruzione provinciale. Ne fanno parte i militari che si occupano, appunto, di ricostruire. Ma non solo edifici, scuole, ponti e strade. Anche, e soprattutto, quel senso dello Stato che le continue guerre hanno distrutto.
“Per quest’anno abbiamo a disposizione 5 milioni di Euro, destinati a un totale di 60 progetti. Tra gli altri, ci sono 6 scuole, 4 ambulatori medici, 172 pozzi, di cui 30 già realizzati, 18 chilometri di acquedotto, che verranno costruiti nei quartieri più poveri di Herat”. Al di là dei numeri, tuttavia, sono le procedure per la realizzazione dei progetti che danno il senso del lavoro che si sta facendo qui. “Le ditte che realizzano i progetti – spiega il capitano Solastri – sono tutte locali. E noi stessi raccomandiamo di assumere lavoratori del posto. L’assegnazione del progetto avviene in seguito a una regolare gara d’appalto. Noi seguiamo accuratamente ogni fase: dalla gara, che deve essere condotta nel massimo di trasparenza e correttezza, alla realizzazione dell’opera, che deve avvenire in tempi adeguati e, soprattutto, con standard di qualità assimilabili a quelli europei”.
Mentre si realizza l’opera, quindi, avviene un naturale travaso di know how, presupposto imprescindibile per il futuro “sviluppo autonomo” del Paese. Non solo, mentre il team Cimic collabora a stretto contatto con le autorità locali e i loro dipartimenti tecnici, si costruisce una capacità di governance, una capacità gestionale e amministrativa.
L’atteggiamento di risposta della popolazione locale, il capitano Solastri lo spiega con una battuta: “Beviamo tanto tè e mangiamo tanto riso con capra, il piatto tipico di queste parti”. Tradotto in termini di usanze locali significa che dovunque vadano, i militari vengono riconosciuti come “ospiti”. E qui, il concetto di ospitalità è sacro e comporta tutta una serie di obblighi da parte del “padrone di casa”: collaborazione e protezione in particolare.
“Il nostro approccio è quello della comprensione ma, soprattutto, condivisione. Ogni volta che inauguriamo un edificio o un’opera invitiamo sempre le autorità locali. C’è sempre tanta gente e nugoli di bambini. È una festa. Quando c’è stata la cerimonia per la posa della prima pietra dell’acquedotto, circa tre settimane fa, il sindaco è venuto e ha spontaneamente consegnato al Comandate del Prt e a me la cittadinanza onoraria e le chiavi della città”.
Eppure, quello afgano è un popolo avvezzo a dover “sopravvivere”. E potrebbe sorgere il dubbio che non ci sia tutta questa partecipazione, bensì la percezione che ci sia la possibilità di “mungere una vacca grassa”. “Non credo sia così. Dopo cinque anni di presenza italiana qui a Herat – controbatte il responsabile del Cimic Group – gli afghani hanno capito che la nostra presenza è veramente benefica e che per loro si tratta di un’opportunità unica”.
E da parte italiana invece? Quello della ricostruzione e degli aiuti umanitari è veramente un compito da militari? O serve solo per “accattivarsi” le simpatie della gente del posto e aumentare così il livello della propria sicurezza? “La nostra missione prioritaria – afferma il capitano Solastri – è ben chiara. Noi siamo militari, e prima di tutto qui dobbiamo garantire la sicurezza. Ma c’è anche una fase successiva, quella dello sviluppo. Ecco, il Cimic Group fa proprio questo: cercare di ridare la speranza”. Non a caso, infatti, mentre il grosso del contingente italiano di stanza nella Regione Ovest si trova a Camp Arena, presso l’aeroporto di Herat, a qualche chilometro dal centro della città, il Prt è situato a Camp Vianini, proprio nel centro abitato. Una posizione che è anche un messaggio: vicini alla gente.
La provincia di Herat, tuttavia, è grande. E il Cimic non si occupa solo del centro abitato. “Qualche volta ci capita di raggiungere villaggi sperduti dove non hanno ancora mai visto un soldato della Nato. Quando arriviamo ci guardano con sospetto. Basta però dimostrare di rispettarli che l’atteggiamento cambia: chiediamo subito dell’elder, il capo villaggio, e con lui parliamo, dialoghiamo, spieghiamo. E poi chiediamo se hanno qualche esigenza particolare. Noi, però, non facciamo mai promesse se non siamo sicuri di poterle mantenere”.
Altre volte ancora, soprattutto per le zone a sud, quelle più vicine alla provincia di Farah, capita di dover raggiungere alcune delle zone più “calde”, quelle su cui ancora il controllo da parte delle forze Nato non è completo. “Fortunatamente finora non abbiamo mai avuto problemi d sicurezza. Però con noi lavora un ingegnere afgano che è la parte più vulnerabile del team. È lui che rischia ogni giorno: rischia quando torna dai suoi la sera, rischia la sua famiglia che rimane a casa ad aspettarlo. Lui, però, mi ripete sempre una cosa: se tu rischi per un Paese che non è il tuo, perché non dovrei farlo io? Io vado dove tu vai. Questa è, secondo me, la maggiore dimostrazione di quanto questa gente senta il bisogno di ricominciare. E veda in noi una grossa opportunità per ripartire”.