ll partito di opposizione dei media Usa (altro che guardiani della libertà)
01 Dicembre 2017
Quei media Usa che da guardiani della libertà si sono trasformati in avanguardia militante dell’opposizione. “We surrendered any expectation of honesty”. Scrive Frank Bruni sul New York Times che i giornalisti liberal hanno rinunciato a qualsiasi aspettativa di onestà (naturalmente da parte di Donald Trump). Di decenza scrive anche David Borooks. L’era di Trump sarebbe (senza dubbio anche con qualche argomento) quella in cui la ricerca della verità, di cui i media guardiani del sistema per definizione dovrebbero essere i primi protagonisti, è entrata in qualche modo in crisi. Però “è paradossale che i media esercitano la loro libertà con un vigore mai visto prima alla ricerca della verità sui fatti eppure perdono di credibilità” dice il costituzionalista Floyd Abrams a Massimo Gaggi sul Corriere della Sera del 7 novembre.
In un’inchiesta sul Financial Times del 16 novembre Andrew Edgecliffe-Johnson racconta come: “most Americans don’t believe us. According to Gallup, Americans’ trust in mass media peaked at 72 per cent in 1976, the year All The President’s Men hit cinemas. By last year, that figure had plunged to 32 per cent — just 14 per cent among Republicans”, la maggioranza degli americani non crede più in quel che scriviamo noi giornalisti, siamo passati da una fiducia popolare del 72 % nel 1976 a un 32 % che diventa un 14 % tra gli elettori repubblicani. In un’indagine del Pew research center mentra le Chiese o comunque le organizzazioni religiose vengono considerate positive dal 59 % dell’opinione pubblica e negative dal 26, i media americani vengono considerati negativi dal 63 % e positivi dal 28.
“The media has totally lost its connection with a large portion of the nation, almost all of them conservatives. Worse, the media has become what Trump and allies refer to as ‘the opposition party’—and, as such, a most useful toil for the Trump administration. This problem is real. The anger against the mainstream media is deep-seated. And, as difficult it is for many to accept, much of the anger is justified. As CNN’s own Jake Tapper recently noted , ‘President Obama said things that weren’t true and got away with it more for a variety of reasons, and one is the media was much more supportive of him.’ I’m not by any means a defender of Trump, but it’s hard to argue the media is attempting to offer any semblance of balance”. Matt Latimer, già consigliere di George W. Bush e fiero oppositore di Donald Trump spiega sul sito Politico del 25 novembre come i media abbiano perso il rapporto con una larga parte della nazione, specialmente quella di orientamento conservatore. I media sono apparsi il vero “partito di opposizione” come ha detto Trump che ha usato questo argomento per difendere spesso efficacemente la propria amministrazione. Ha anche detto Jake Tapper della CNN: quando Barack Obama ha detto cose non vere, noi non lo abbiamo fatto notare. Insomma i media hanno perso così la loro funzione di bilanciare i poteri.
“Assessing the tone of news coverage, the Harvard researchers found that CNN’s Trump coverage was 93 percent negative, and seven percent positive. The researchers found the same numbers for NBC.Others were slightly less negative. The Harvard team found that CBS coverage was 91 percent negative and 9 percent positive. New York Times coverage was 87 percent negative and 13 percent positive. Washington Post coverage was 83 percent negative and 17 percent positive”. Lattimer nel suo articolo su Politico si riferisce a una ricerca dell’ “Harvard Kennedy School’s Shorenstein Center on Media, Politics and Public Policy” di cui ha riferito sul Washington Examiner del 19 maggio Byron York e che spiega come la copertura delle notizie su Trump della CNN è stata con valutazione negativa per il 93 per cento. Della CBS del 91 per cento, Del New York Times dell’87, del Washington Post dell’83.
Davide Brooks sul New York Times del 16 novembre ha scritto: “Naked liberalism has made our society an unsteady tree. The branches of indivdual right are sprawling, but the roots of common obbligation are withering away”, il liberalismo spogliato dal senso della responsabilità civile, del ripsetto per lo Stato di diritto e della decenza ha creato nella nostra società un albero instabile. Mentre i rami dei diritti individuali sono cresciuti rigogliosi, le radici della comunità civile si stanno rinsecchendo. Brooks, pur se spesso ossessionato da un antitrumpismo quasi maniacale, spiega che non c’è solo quello che lui definirebbe il turboliberalismo trumpiano degli interessi individuali senza senso della responsabilità e della decenza, c’è anche il liberalismo dei diritti senza doveri, della politically correctness che ha avuto il suo massimo splendore (nonché ha inferto il massimo dei guasti alla nazione) con Barack Obama. Di fatto, Brooks dovrebbe meditare su quanto la risposta “trumpiana” non priva di tratti selvaggi, con etica assai improvvisata e un rapporto talvolta surreale con i fatti – esattamente come è avvenuto da noi con il berlusconismo – nasca come inevitabile reazione a questo liberalismo dei diritti senza responsabilità, ben completato da quella sorta di opprimente partito liberal dei media, censorio e vendicativo con chi non si allinea, non più “cane da guardia” ma “mastino da zuffe”, di cui si è scritto sopra. Il tutto mal contrastato da un establishment repubblicano ammuffito (dalla House of Bush fino a quel poveretto di John McCain sempre diviso tra i suoi risentimenti e i suoi ripensamenti) molto simile alla vecchia Dc post-1992 che noi italiani abbiamo avuto modo di apprezzare.
Serra quel perfetto signorino snob. “Entrambi parlano italiano peggio della Meloni, ma bisogna sapersi accontentare” dice Michele Serra sulla Repubblica del 9 novembre riferendosi ai candidati M5S e Fratelli d’Italia “presidenti” del municipio di Ostia. Oh! Meraviglioso arricciamento di nasino con leggeri accenni di trattenuto disprezzo per quei poveracci che parlano male l’italiano. Da quando la Franca Valeri è invecchiata e non fa più la signorina snob, sentivamo proprio la mancanza di un tipino così.
Dall’altra parte del mondo c’è chi non vorrebbe proprio vivere all’ombra del potere cinese.“The white paper is a way of saying that no one wants to live in China’s shadow and Beijing sholud stick to rules-based system” Michael Fullilovem studioso di politica internaizonale e direttore del Lowy institute for International policy, autorevole think tank con sede a Sidney, influente sulle scelte di Canberra, spiega a Jamie Smyth sul Financial Times del 24 novembre, il libro bianco che hanno preparato sulle iniziative cinesi mirate a dominare il traffico navale nelle rotte tra Oceano Pacifico e Oceano Indiano, e su come contenerle con la diplomazia, il rispetto delle regole, un commercio libero e fair e un solido rapporto con gli americani.
Chi potrebbe essere il Mugabe italiano? “Vedere Renzi a braccetto con Bersani e D’Alema darebbe la stessa sensazione della ‘foto di Harare’ quella in cui, nella capitale dello Zimbawe, il novantenne presidente Robert Mugabe è apparso venerdì scorso rilassato in poltrona assieme al generale Constantino Chwenga che lo aveva deposto il giorno precedente”. Questa battuta di Paolo Mieli sul Corriere della Sera del 20 novembre è folgorante, e polverizza qualsiasi possibilità di una resa di Matteo Renzi a Massimo D’Alema. La battuta è veramente definitiva nella sua genialità, e solo per invidia e carogneria mi provo a rovinarla chiedendomi chi potrebbe essere realisticamente un Mugabe italiano. Magari uno che non viene direttamente dalla politica e che però non ha un curriculum guerrigliero come il ras in uscita dello Zimbawe ma piuttosto nell’impresa pubblica, uno che preferisce i divertenti affari alla noiosa politica come appunto Mugabe, uno che questi affari li fa innanzi tutto con i cinesi e in seconda scelta con i francesi (appunto come Mugabe). C’è un profilo così nella politica italiana? A me viene in mente un professore che Francesco Cossiga definiva tra i massimi studiosi della produzione di piastrelle di Sassuolo.